“Physical Graffiti” – led zeppelin’s masterpiece
L’ennesimo parere non richiesto che tutti stavano aspettando Nella puntata della scorsa settimana abbiamo ascoltato cosa accade…
L'ennesimo parere non richiesto che tutti stavano aspettando
Nella puntata della scorsa settimana abbiamo ascoltato cosa accade quando gli stili si fondono. Angelino e Robertino ci hanno parlato di rock e pop e il Berre è tornato con la sua rubrica per raccontarci di quando Paul Anka decise di fare una cover in chiave swing di Black Hole Sun. Abbiamo sentito delle perle rare nate dalla sperimentazione e dalla voglia di andare oltre i canoni e le convenzioni. Ma cosa accade quando la più grande rock band di tutti i tempi decide di unire progressive rock, blues, folk, funk, love ballads e un pizzico di country in un unico album? Il risultato è “Physical Graffiti”, sesto studio album della coppia d’oro Page e Plant che, nonostante la non lunghissima carriera ci regalano un’opera matura, raffinata e perfettamente consapevole, un capolavoro della discografia,
E cosa si potrebbe dire che non sia già stato detto sull’unicità dei Led Zeppelin?
I fan più accaniti sapranno già che il titolo Physical Graffiti, voluto da Page, intendeva esprimere l’effettivo sforzo fisico dietro alla realizzazione dell’album,: addirittura pare che Jimmy stesso abbia costruito alcune delle chitarre utilizzate durante la registrazione dei brani più nuovi. Se si pensa inoltre che la registrazione dell’album è iniziata con la minaccia di ritiro dalle scene di John Paul Jones per dedicarsi al coro della sua chiesa (poi fortunatamente rientrata grazie all’opera di convincimento del manager Peter Grant), questo lavoro ci sembra ancora più incredibile. La copertina del disco, la foto di due palazzi speculari a New York, dalle cui finestre possiamo decidere di mostrare il titolo dell’album o immagini di personaggi famosi, è una delle più costose mai realizzate, tanto complessa da ritardare l’uscita del disco. Come se questo non bastasse Physical Graffiti è l’unico doppio album della band, necessario vista la lunghezza delle ultime composizioni a cui si sono poi aggiunti alcuni brani mai pubblicati nei lavori precedenti.
Ma la vera magia dell’ennesima prova di abilità dei Led Zeppelin sta proprio nel suono, quel suono di rara perfezione a cui non resta niente da aggiungere e che possiamo solo sederci ad ascoltare, mentre accompagna la nostra mente in luoghi nascosti, lontani eppure talmente vicini a quello che di più profondo alberga in noi.
Si perché Physical Graffiti non è altro che un viaggio, che parte da casa con al centro della tavola una crostata alla crema di rock, delle note di blues e giusto un pizzico di funk per equilibrare i sapori. Si dice infatti che il termine “pie” sia un eufemismo per i genitali femminili, utilizzato tra gli altri anche dai Beatles e dai Four Tops. Il viaggio continua con una rivisitazione di un classico gospel, In my time of dying, il risultato del coraggio di Page e Plant di sperimentare e di rivedere generi a loro lontani, rendendoli, come in questo caso, capolavori. In my time of dying è il brano più lungo dei Led Zeppelin eppure nei suoi oltre 11 minuti riesce a non annoiare, prende il gospel e lo trasforma in blues e mentre la voce di Plant ci entra sottopelle scuotendoci le membra, le dita di Bonham e Jones lo accompagnano in un crescendo di tensione tecnicamente perfetto, tenendoci con il fiato sospeso dall’inizio alla fine.
Ma questo è solo l’inizio, o meglio la fine dell’inizio, perché la B side del primo album (la mia preferita se a qualcuno interessasse) inizia con un altro assaggio di blues che sfocia in Houses of the holy. Per qualche motivo questo brano era stato lasciato fuori dal quinto album che portava lo stesso nome. Se il testo sembra una serenata da ragazzini la melodia è divertente, fa venire voglia di ballare mentre si tiene in mano lo stesso campanaccio che sentiamo suonare nella canzone, con il coro che dietro ti incita “doit,doit,doit”.
Ma il bello deve ancora arrivare, dalla stalla dello zio Tom tra mucche e colombe si passa ad un classico rock dalle forti influenze funk che parte quasi come Superstition (i Led Zeppelin non hanno mai nascosto di essersi ispirati a Stevie Wonder nella stesura di questo pezzo) e continua ricordandoci Long Train Running dei Doobie Brothers. Sebbene la canzone dei Doobie sia stata pubblicata due anni prima dell’uscita di Physical Graffiti, pare che Trampled Under Foot fosse l’evoluzione di una jam session del 1972 tra Plant, Page e Jones. Non sapremo mai chi si sia ispirato a chi, ma poco importa, gli anni che ci sono voluti per perfezionare questo riff incessante, che ti entra in testa e ti fa muovere le spalle,sono stati necessari e ben spesi.
E se Custard Pie e Houses of the Holy non sono mai state eseguite live, Kashmir è diventata invece una costante dei concerti dalla sua pubblicazione. Un lavoro lungo tre anni che con un attacco ormai inconfondibile e suoni dalle influenze mediorientali ci porta in terre lontane, terre che neanche Plant che ha pensato al titolo ha mai visitato e che ci trasmette con magistrale eleganza e raffinatezza la perfetta sinergia della band.
Il secondo disco ci presenta il primo pezzo strumentale da Led Zeppelin II, un delicato assolo acustico di Page che ci fa fermare un attimo per riprendere fiato dopo una lunga giornata, seduti in riva ad un fiume mentre l’acqua scorre davanti a noi e niente sembra poterci turbare. E se da quel fiume ci spostiamo Down by the seaside ricominciamo, nonostante la melodia ancora rilassata, a trovare quella giustapposizione che caratterizza tutto l’album. Se con gli altri brani si gioca con diverse influenze musicali in questo caso il contrasto sta tra le parole e la musica.
Mentre ci rilassiamo sulla spiaggia,Robert Plant ci fa riflettere sulla sfiducia nei confronti dell’umanità: se in riva al mare non si può sentire cosa dicono i pesci, per le strade della città la gente che corre ha voltato le spalle alla natura.
E se la chiusura dell’album non è forse all’altezza delle enormi aspettative lasciate dalle prime tre parti, Physical Graffiti rimane uno dei migliori album mai concepiti nella storia del rock. Un lavoro che riunisce tutte le influenze che hanno caratterizzato l’evoluzione dei Led Zeppelin, che passando dall’hard rock al funk, dal blues al soul hanno saputo accompagnarci in viaggi mistici ed indimenticabili.
Linda Flacco