I Libertines festeggiano “Up The Bracket”: vent’anni e non sentirli

I Libertines hanno appena concluso il tour europeo che festeggiava i vent’anni di vita del loro album…

I Libertines hanno appena concluso il tour europeo che festeggiava i vent’anni di vita del loro album di debutto, “Up the Bracket”. Tante date, una dopo l’altra, per un vero viaggio nel vecchio continente, da cui mancavano da tre anni esatti: siamo stati alla data di Milano e possiamo dire che, complice forse la lunga assenza, l’energia e la carica della band non solo non hanno deluso le aspettative, ma, anzi, le hanno superate. In due ore di concerto, i Libertines hanno dato spazio a tutto l’album, senza dimenticare poi must come “Can’t Stand Me Now”, “What Became of the Likely Lads” e “Music When The Lights Go Out” (parte del secondo disco “The Libertines”), “Don’t Look Back Into The Sun” o, ancora, la ben riuscita “Gunga Din” del più recente “Anthems for Doomed Youth”, che ha segnato il loro ritorno nel 2015.
Una bella festa, carica di complicità tra i due frontmen, ricca di chitarre distorte e versi cantati al microfono condiviso. Un concerto in cui è risuonata tutta la potenza e la bellezza di un album che, vent’anni dopo, funziona ancora benissimo e, anzi, ha da insegnare a molti altri.

photo credits: Starfooker

Ed è proprio su questo che vale la pena soffermarsi: la magia di quest’album e quello che ha rappresentato all’epoca della sua uscita.

Sono i primi anni 2000, il Britpop è alle spalle già da molto, gli Oasis sono entrati nell’ultima fase (discendente) della loro carriera e del loro piglio, e la scena rock britannica è piuttosto stanca e priva di nuove idee. Se dagli US gli Strokes portano una ventata di novità, con un garage rock sporco e diretto, dalle parti di Albione le cose sono un po’ più scialbe.
I Libertines nascono in quegli anni, dall’incontro tra Carl Barat e Peter Doherty: i due si incrociano quando Carl, che studia recitazione all’Università di Uxbridge, è il coinquilino di Amy-Jo Doherty, la sorella maggiore di Peter. Prendono velocemente coscienza delle proprie capacità compositive e la loro passione in comune per la scrittura musicale si trasforma presto in un legame intenso e creativo: Carl abbandona il corso di recitazione, Peter lascia il corso di letteratura alla Queen Mary, e insieme si trasferiscono in un appartamento a Camden Road, che viene soprannominato “The Delaney Mansions“. Nasce così un legame fortissimo, complicato, a tratti tossico, ma profondo e indissolubile, che è sempre stato il cuore della band, dei suoi testi, dei suoi alti e bassi.
Il gruppo comincia a suonare nei locali londinesi e, dopo l’aggiunta di Gary Powell alla batteria e John Hassall al basso, in soli pochi mesi riesce a firmare un contratto con la Rough Trade. 
Da lì il passo è breve, e i nostri si trovano in studio a registrare il loro album di debutto con tanto di Mick Jones dei The Clash alla produzione.

L’album viene anticipato dal singolo “What a Waster”, un tripudio di rabbia e disincanto in salsa brit, per poi uscire a ottobre del 2002.
Il titolo “Up the Bracket” fa riferimento al modo di dire dello slang cockney “A punch up the bracket”, ossia “un pugno alla gola”, benché sia facile pensare anche a una referenza a una famosa battuta di Tony Hancock, uno dei comici preferiti da Peter Doherty: “A punch up the bracket never hurt anyone” (“Un pugno alla gola non ha mai fatto male a nessuno”). Carl Barat ha dichiarato che l’intento del titolo fosse quello di creare una confidenza e una franchezza immediate, senza troppi giri di parole. E ci sono riusciti.
Dentro questo album ci sono dodici tracce forti, rabbiose e intense, che si muovono tra rock (e punk) ed esigenze poetiche e liriche profondamente legate alla cultura del regno d’Albione: tutto è retto dalla perfetta simbiosi artistica tra i due frontmen e dall’ottimo lavoro di Hassall e Powell, che sanno restare un passo indietro fornendo al tempo stesso un contributo formidabile.

Tuttavia, non è possibile valutare nessun pezzo dei Libertines prescindendo dai testi: è lì, in quelle parole spesso cantate in maniera sguaiata e scomposta, altre volte invece con dolcezza e emozione, che sta il valore aggiunto di questa band. Le capacità autoriali di Doherty e Barat sono altissime e, va detto, ampliamente sottovalutate: lo sono anche singolarmente, ma solo unite trovano quell’apice creativo e lirico che ha saputo creare pezzi fortissimi e diretti, ma sempre impregnati di un romanticismo sognatore e nostalgico.

Abbiamo deciso, quindi, di analizzare questo album spulciando la tracklist ed evidenziando alcuni dei versi più riusciti. 

Photo: Roger Sargent

Si parte fortissimo con “Vertigo” e le intenzioni sono subito chiare: chitarroni e tutta la voglia di scaricare la rabbia e buttarsi, nonostante le vertigini (“Rapture of vertigo, of letting go”, ossia “il rapimento delle vertigini, del lasciarsi andare”). Poi arriva subito uno dei pezzi più belli dei Libertines, “Death on the Stairs”, dove le voci di Carl e Pete si alternano in maniera perfetta su un testo poetico e amaro che parla di rimpianti, amore e passato: “Now I’m reversing down the lonely street, cheap hotel where I can meet the past, pay it off and keep it sweet” (ora sto tornando indietro, sulla strada solitaria, in un brutto hotel in cui posso incontrare il passato, saldare i mie debiti con lui, e tenerlo a bada”).

Arriva “Horroshow” ed è solo rabbia, così tanta da non voler nemmeno sapere cosa possa riservare il futuro: “She says I’ll show you a picture, a picture of tomorrow, there’s nothing changing, it’s all sorrow” (“lei mi dice: ti mostro un’immagine del futuro, non cambia nulla, c’è solo tristezza”). Ed eccoci qui, alla meravigliosa “Times for Heroes”, con i suoi “stylish kids in the riot” (“i ragazzi alla moda nel cuore della rivolta”): e ci sembra di vederli, questi ragazzi inglesi impegnati in risse e proteste, allo sfacelo, ma con indosso un cappottino, dei jeans skinny o un cappello elegante. Subito dopo ci sono i “Boys in the band”, un pezzo che sembra un inno indie rock sul rapporto tra ragazze e musicisti, in maniera melodicamente furba (“They scream and they shout for the boys in the band“, “urlano e strillano per i ragazzi della band”), e “Radio America”, una dolce ballata semi-acustica.
Si ritorna subito ad alzare il ritmo, con la grintosa title track “Up the Bracket”, che ci racconta una storia di finzione (?!) in cui il protagonista è tallonato da due malviventi per avere informazioni su un amico. L’io parlante della canzone, lo stesso Doherty, risponde alla sua maniera, ossia mostrando i suoi “crooked fingers”, il gesto delle dita a forma di V che nel mondo anglosassone equivale al nostro dito medio. Insomma, meglio vedersela brutta che tradire un amico.

Photo: Cristina Massei

Segue l’intensa e amara “Tell the king”, che parla di esclusione, derisione e della frustrazione di ricevere continue porte in faccia e doversi accontentare di guardare da lontano, e che si chiude con versi poetici, tristi e bellissimi: “Jack drinks and smokes his cares away, his heart is in a lonely way, living in the ruins of a castle built on sand” (“Jack annega le sue preoccupazioni nell’alcool e nel fumo, il suo cuore è in una via solitaria, vive nelle rovine di un castello costruito sulla sabbia”)
The Boy Looked at Johnny” esplora il rock anni ’50, ma con un canto sguaiato che evoca più le atmosfere da impromptu gig tanto care alla band, solita organizzare concerti a sorpresa, spesso anche nell’appartamento in cui vivevano Carl e Pete, le “Albion Rooms” al 112a di Teesdale Street a Bethnal Green a Londra (ne abbiamo parlato anche nella nostra Rock Parade dedicata ai concerti nei posti più memorabili). E’ di nuovo il tempo di rallentare un pochino, ed ecco “Begging”, una ballata soft, che ci porta alla stupenda “The good old days”, uno dei migliori pezzi in assoluto della band, sul quale è giusto dilungarsi un po’ di più.
E’ una ballata rock con un testo straordinario, in cui ogni verso potrebbe essere il titolo di un libro, e pervasa dal senso di appartenenza al regno di Albione. E così, si parte da Budicca, la regina degli Iceni (una popolazione che abitava l’Inghilterra orientale), che nel 61 d.c. fu a capo della più grande rivolta anti-romana delle tribù dell’isola; il suo spirito, cantano i nostri, è ancora vivo e vegeto dopo millenni: “If Queen Boadicea is long dead and gone, still then the spirit in her children’s children’s children it lives on” (“la regina Budicca è morta da molto, eppure il suo spirito continua a vivere fino ai suoi pronipoti”). Si arriva al finale elettrico con “The arcadian dream so fallen through, but the the Albion sails on course” (“il sogno arcadico è finito, ma la nave Albione naviga in rotta”), passando per un ritornello emozionale e sincero, “If you’ve lost your faith in love and music, then the end won’t be long” (“se hai perso la fiducia nell’amore e nella musica, beh, la fine non sarà lontana”)
Chiude in maniera rabbiosa “I Get a long”, un pezzo quasi punk in cui Carl Barat urla con fierezza la resilienza e l’ostinazione di andare avanti comunque: “I get along just singing my song, people tell me I’m wrong… f**k ‘em” (“io vado avanti a cantare la mia canzone, le persone dicono che sbaglio… vadano a f****o”)

Photo: Roger Sargent
Photo: Roger Sargent

Molte frasi contenute nei testi di questo album potrebbero riassumere da sole questa band: rabbia e frustrazione che si uniscono a ideali romantici e a continue connessioni con la letteratura d’Oltremanica, poggiate su un irresistibile letto di chitarre e batterie accelerate. Dopo questo debutto, i Libertines vivranno un successo veloce e fulminante, che in gran parte sarà la loro condanna, ma che, dall’altra, li porterà a essere unanimemente considerati una delle più sincere espressioni dell’avanguardia della nuova generazione musicale britannica, grazie a canzoni trascinanti, sonorità post-punk e testi potentissimi, fortemente incentrati sulla cultura inglese.
Up the Bracket” ha vent’anni, e dei vent’anni mantiene il coraggio, l’irruenza e l’instancabile capacità di sognare.
Il consiglio è di ascoltarlo e farvi trasportare, perché siamo certi che anche tra altri venti le cose non saranno cambiate, e la vecchia cara nave Albione starà ancora veleggiando fiera tra le onde agitate del mondo.

Sara Bernasconi

Similar Posts

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Alberto Pani

Blogger

Cresciuto ai piedi delle ridenti colline del Monferrato, tra muri di nebbia sei mesi l’ anno, zanzare incazzate nei sei mesi successivi e bocce di vino rosso sempre e comunque per stemperare il disagio così accumulato.

Chitarrista fuori forma.

Fermamente convinto che 8 volte su 10 le cose si risolvano da sole.

Punto debole: la meteoropatia