Michael Hutchence: la fine tragica di un’anima tormentata
Ci sono storie che iniziano male, e hanno un lieto fine. Ci sono storie che iniziano bene,…
Ci sono storie che iniziano male, e hanno un lieto fine. Ci sono storie che iniziano bene, e si concludono in modo tragico. In mezzo, ci sono le storie che contengono sia bellezza che tragedia, in un delicato equilibrio tra gloria e dramma, come una biglia che scorre pericolosamente sul bordo di un asse inclinato verso un finale forse già scritto.
A queste ultime appartiene la storia di Michael Hutchence, il leader degli INXS morto 25 anni fa in una stanza del Ritz-Carlton Hotel della sua città natale, Sydney.
Questa storia aveva tutti i presupposti per essere una fantastica iperbole rock, fatta di un successo planetario nel pieno degli anni ‘80, canzoni immediate e contagiose, riff distintivi, una bella dose di glam, un leader bello e carismatico, copertine, top model, letteratura, tour mondiali e stadi pieni.
Ma dietro la coltre patinata si annidano insicurezze, demoni, episodi sfortunati e una fragilità che il successo non può curare, ma, anzi, spesso solo acuire.
Gli INXS nascono a Sidney alla fine degli anni Settanta (inzialmente col nome di “The Farriss Brothers”) e nel pieno della decade successiva diventano uno dei gruppi di punta della cosiddetta new wave del pop elettronico, grazie al successo degli album “The Swing” (1984) e “Listen Like Thieves” (1985), ma soprattutto grazie all’esplosione di “Kick” (1987), l’album che include i pezzi che ancora oggi riconosciamo immediatamente da un riff o dall’inizio di un ritornello. Qualche esempio? “New Sensation”, “Devil Inside”, “Need you Tonight”, “Mistify” e “Never Tear Us Apart”.
Sono gli anni ’80, e gli INXS (che, ricordiamo, in inglese si legge “in excess”, in eccesso) sposano a pieno la cultura folgorante del periodo. La band diventa famosa in tutto il mondo, vende milioni di dischi, riempie stadi.
Il frontman è bello e affascinante: nonostante le copertine e le relazioni con donne famose e bellissime (da Kylie Minogue a Helena Christensen), sa mantenere la giusta dose di riservatezza e mistero.
Partecipa a poche feste pubbliche e, quando lo fa, ama stare in disparte e chiacchierare con le persone meno in vista. Ama profondamente “Il Profumo” di Patrick Süskind, e visita spesso i luoghi del romanzo, perdendosi nel buio della campagna provenzale per farsi guidare solo dalle fragranze dei profumi che lo circondano. Una passione, questa, che diventerà un triste presagio: anni dopo, a Copenaghen, colpendo la testa dopo una colluttazione con un tassista, Michael perderà parzialmente gusto e olfatto e vivrà gli ultimi cinque anni della sua vita rinunciando alla componente sensoriale che era sempre stata fondamentale per la sua sensibilità. Il consulto medico (tardivo) a cui Michael si sottopone dopo mesi passati al buio dell’appartamento di Helena Christensen a seguito dell’incidente, è tragico: una brutta lesione del lobo frontale che compromette l’elaborazione delle emozioni e che, spesso, comporta un alto rischio di suicidio.
E’ lui stesso a confidare al suo grande amico Bono Vox che, dopo quell’incidente, nulla è stato più come prima: e a buona ragione, perché il suo carattere, prima fragile, ma schivo, diventa iroso e aggressivo, incapace di gestire le sensazioni altalenanti a cui la vita lo sottopone.
Iniziano gli scontri e le liti con la band in sala prove, arrivano i momenti di crisi creativa e l’emergere di nuovi protagonisti della scena musicale, rispetto a cui i gruppi come gli INXS faticano a tenere il passo. Emblematico, in questo senso, è l’episodio che vede protagonista Noel Gallagher ai Brit Awards del 1996: gli Oasis vincono nella categoria “Best video” e a consegnare il premio è proprio Michael Hutchence, freddato in diretta mondiale dalle parole sprezzanti di Noel, “Has-beens shouldn’t be presenting awards to gonna-bes” (“Le band del passato non dovrebbero dare premi alle band del futuro”). Michael incassa elegantemente senza battere ciglio, ma si tratta dell’ennesimo colpo a un orgoglio sempre più ferito.
E le prove non sono finite, perché di lì a poco arriva la storia con Paula Yates, nata sul set di un’intervista per il programma “Breakfast in bed”: come in ogni tragedia che si rispetti, c’è la storia d’amore che nasce con un colpo di fulmine e una passione incontrollabile, che poi diventa eccessiva e tossica, infine si conclude con un finale drammatico per entrambi i protagonisti. Lungi da noi il voler semplificare o sminuire persone e avvenimenti, ma, di fatto, spesso quando due anime travagliate e autodistruttive si incontrano, gli esiti non sono dei più rosei.
E così, in un momento di lontananza fisica ed emotiva – lei è bloccata in UK per le pratiche del divorzio da Bob Geldof e l’affidamento delle figlie, lui è in Australia per il tour mondiale di “Elegantly Wasted”, l’ultimo album in studio degli INXS – i demoni prendono il sopravvento. Sono ore di confusione, rabbia e suppliche, tra telefonate in lacrime a Paula e chiamate minacciose a Geldof, abuso di droghe e urla. L’ultima, disperata richiesta d’aiuto che parte dalla stanza di hotel del Ritz-Carlton è quella verso la fidanzata di gioventù, Michelle, a cui Michael chiede aiuto nel momento più nero: lei corre e un’ora dopo sarà in quella stanza. Ma è già troppo tardi.
Michael Hutchence esce di scena in maniera tragica e cupa, in una spirale di dolore e disperazione.
Al funerale, la bara viene portata dal resto della band e dal fratello minore sulle note di “Never Tear Us Apart”, mentre Nick Cave canta un’intima versione di “Into My Arms”, chiedendo che le telecamere rimangano spente.
Tre anni dopo, Paula, ancora distrutta dal lutto, morirà per un’overdose, lasciando completamente orfana la loro bambina, Tiger Lily (poi legalmente adottata e cresciuta da Geldof).
Come ogni storia drammatica, anche quella di Michael Hutchence lascia dietro di sé molta tristezza e un gran senso di impotenza di fronte alla fragilità umana. Al tempo stesso, però, ci ha lasciato molte, bellissime canzoni, che ancora oggi riconosciamo immediatamente e che, col senno di poi, spesso sembrano recare messaggi inquietantemente premonitori sul finale che attendeva il loro autore.
E non solo, perché negli anni sono arrivate anche le canzoni di alcuni amici illustri, come gli U2 con “Stuck in a Moment You Can’ Get Out Of” – che racconta proprio il dramma di quella mattina maledetta e dell’essere ostaggio dei propri demoni – o i Duran Duran con “Michael, you’ve got a lot to answer for”.
Come sempre, quindi, non ci resta che farci cullare dalla musica e lasciare così che anche un’anima tanto travagliata possa vivere in eterno attraverso la sua meravigliosa voce e le sue indimenticabili canzoni:
“I told you that we could fly, ‘cause we all have things, but some of us don’t know why” (“Ti ho detto che potevamo volare, perché tutti abbiamo le ali, ma alcuni di noi non sanno perché”)
Sara Bernasconi