Mark Lanegan: un brindisi con i propri demoni

Voce baritonale immediatamente riconoscibile, intrisa di alcool e sigarette, mescolata ad incredibili e dolorose capacità di comporre…

Voce baritonale immediatamente riconoscibile, intrisa di alcool e sigarette, mescolata ad incredibili e dolorose capacità di comporre canzoni: questa è forse la miglior ricetta per capire l’essenza dell’arte di Mark Lanegan.

Il cantante statunitense, già leader degli Screaming Trees (uno dei gruppi fondamentali della scena grunge degli anni ’90), non è mai stato un ragazzo dal carattere particolarmente facile. Una vita familiare disfunzionale, adolescente teppista con un’eccessiva timidezza e tormentato, in seguito, da alcolismo e droghe pesanti. Fortunatamente Mark, nonostante sia dovuto ricorrere anche ad una clinica per disintossicarsi, si è rivelato abbastanza forte da condensare i suoi spettri sugli spartiti, mantenendo sempre uno stretto contatto con la realtà, a differenza di altri suoi colleghi scomparsi decisamente troppo presto (Kurt Cobain e Layne Staley, nel panorama grunge, su tutti).

La cover picture di “Whiskey for the Holy Ghost”

Whiskey for the Holy Ghost, del 1994, è il secondo lavoro da solista di Lanegan e già dal titolo e dalla cover dell’album si presuppone un’ambientazione western caratterizzata da tinte scure, cupe ed intime, nelle quali si insinua splendidamente la voce sfregiata del cantante: il disco è contraddistinto da una strumentazione acustica delicata e complessa al tempo stesso, con la presenza di violini, organi, sassofoni e pianoforti che permettono a questa particolare voce di risplendere davvero come non mai. Nonostante i noti problemi di abuso di droghe e alcool, che hanno ritardato e prolungato le sessioni di registrazione per 3 anni, nei quali si sono alternati vertiginosamente gli alti e bassi del cantautore (pare che i nastri non finirono per poco gettati in un fiume dallo stesso autore), Whiskey for the Holy Ghost sembra incredibilmente coeso e rappresenta uno dei maggiori successi di Lanegan: un perfetto connubio di rock, blues, country e folk che diventa di diritto uno dei prodotti artistici più appassionanti dell’intero movimento di Seattle.

Un album i cui singoli brani richiedono di essere Ascoltati (con la ‘a’ maiuscola) come un’unica unità per vivere un’esperienza ancora più sorprendente.  

The River Rise ci culla e ci fa sognare attraverso un trionfo di arpeggi e una voce romantica e vellutata nella quale si percepiscono subito dolenti note di sofferenza e dolore che ci accompagneranno per tutto questo viaggio: ogni strumento si fonde alla perfezione con la voce, quasi senza sforzo. È con Borracho, caratterizzata da uno sporco riff blues, che Lanegan ci racconta nel modo più diretto di fantasmi, demoni, whiskey e autodistruzione, bevendo a ciascuno dei rimpianti che lo perseguitano. È questo anche il pezzo più caotico e distorto dell’album. Un leggiadro violino ci parla anche delle sventure in amore di Mark con l’aiuto della morbida chitarra acustica pizzicata di House A Home. Kingdoms Of Rain è dominata da un solenne organo e da un romantico sussurro che ci riporta subito alla mente Leonard Cohen. Alternando brani lenti con altri più spediti passiamo attraverso Carnival, un country-rock in cui violini e sassofoni fanno da padrone. Riding The Nightingale è una canzone scarna, quasi folk, dove struggenti vocalizzi diventano vere e proprie grida di dolore e voci femminili si uniscono in chiusura per contribuire a regalarci un ascolto appagante.

El Sol si può considerare una ballata in cui, dall’onnipresente panorama tetro e desolante, si intravede un barlume di speranza e di luce, mentre all’ascoltatore non resta altro che una malinconica attesa. Il rauco country-blues di Dead On You si contrappone alla seguente Shooting Gallery suonata da una chitarra apparentemente più vivace, più semplice, ma diretta al cuore. Sunrise, pur essendo uno dei pezzi più brevi, è, a mio avviso, anche uno dei migliori: sassofono jazzato e la voce femminile di Sally Barry per accompagnare un caldo blues che parla di una donna troppo brava e bella per essere vera, dalla quale forse è meglio allontanarsi all’alba chiudendo gli occhi. Momento di riflessione in Pendulum: una voce che sembra invecchiata 80 anni, atmosfera malinconica e una chitarra country alla Cash. Il fugace interludio Judas Touch ci presenta l’ultima stupenda Beggar’s Blues: ideale chiusura di un’esperienza inquieta, triste e sofferente, ma anche decisamente intensa.  

Mark Lanegan Band al Pistoia Blues Festival nel 2018

In Whiskey For The Holy Ghost troviamo Mark Lanegan al massimo della sua creatività e questo disco rappresenta per molti anche il punto più alto della sua carriera. Un’opera della quale tengo a rimarcare l’importanza e la grandezza non tanto per gli arrangiamenti, quanto per una voce unica e suadente e per una scrittura persuasiva ed originale. Ogni strumento è perfettamente al proprio posto, suona impeccabile e al tempo stesso il cantautore ci offre una delle sue esibizioni più memorabili. Attraverso la sua musica tormentata, Lanegan ha così trovato prima il modo per catturare i suoi demoni e poi quello per conviverci, scoprendo anche il modo più semplice per farlo: danzandoci insieme e buttando giù un bicchiere di whiskey in loro compagnia.  

 

Simone Berrettini

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Alberto Pani

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Cresciuto ai piedi delle ridenti colline del Monferrato, tra muri di nebbia sei mesi l’ anno, zanzare incazzate nei sei mesi successivi e bocce di vino rosso sempre e comunque per stemperare il disagio così accumulato.

Chitarrista fuori forma.

Fermamente convinto che 8 volte su 10 le cose si risolvano da sole.

Punto debole: la meteoropatia