giro d’italia, viaggio nel cantautorato italiano – parte I
Siamo nel 1958. In Italia c’è odore di miracolo economico e si intravede una sottile e inedita…
Siamo nel 1958. In Italia c’è odore di miracolo economico e si intravede una sottile e inedita promessa di sviluppo. Tutti lo sentono, ma nessuno lo dice. Fino al 1 Febbraio.
è Sabato e tutti sono in casa incollati davanti alla televisione, perlomeno tutti quelli che ne hanno una. Va in onda la finale del Festival di Sanremo, proprio quel Sanremo in cui c’è una novità assoluta, tollerata a malapena dagli altri partecipanti, tutti interpreti ai quali le canzoni venivano affidate: questa eccezione è un autore pugliese che presenta una strana canzone scritta insieme all’amico Franco Migliacci. La canzone si intitola Nel blu dipinto di blu e quel cantante è Domenico Modugno. Nel suo smoking azzurro-cielo canta di sogni che non tornano più, di mani e faccia dipinti di blu, racconta di venire dal vento rapito e poi ad un certo punto allarga le braccia, come in un grande abbraccio, e urla: Volare!
Niente di più, niente di meno: una bomba lanciata su un paese che aspettava solo la scintilla per cominciare finalmente a sognare. Finiva il proibizionismo, si avviava la modernizzazione del sistema industriale, i redditi crescevano: l’Italia era pronta a volare e a rivelarlo fu una canzone. Nel blu dipinto di blu, che per gli Italiani diventò presto Volare, era soprattutto un inno alla libertà, genuino, diretto e senza retorica, una canzone che diventava di tutti all’istante, una canzone collettiva che segnava la nascita ufficiale della canzone moderna.
‘Cantautore’ : cantante di musica leggera che interpreta brani scritti o musicati da lui stesso.
Il termine cantautore viene coniato all’inizio degli anni ‘60 dai dirigenti della RCRA Italia. L’idea dei discografici è quella di fondere le suggestioni provenienti dagli chansonnier francesi e i folksingers statunitensi con quanto negli ultimi anni la canzone d’autore italiana è andata acquisendo, grazie alle innovazioni portate proprio da Domenico Modugno che tra le altre cose è anche il primo a scrivere canzoni partendo dalla cronaca, come in Vecchio Frac del ’55. Nasce, così, un tipo di artista nuovo che diventa un tutt’uno con le proprie canzoni, delle quali deve essere autore (di musica e parole, o per lo meno di una delle due) ed interprete.
E se è vero che l’urlo iconico di Modugno apre la strada poco dopo ad una serie di noti e grandi interpreti soprannominati gli ‘Urlatori’ come Mina, Celentano e Tony Dallara, che celebrano in modo scintillante l’arrivo degli anni ’60, è ancor più vero che l’Italia si ritrova poi bisognosa anche di rinnovare la propria educazione sentimentale e la canzone non può più essere una pura e semplice affermazione del sentimento.
Ed ecco che in questo bisogno di ri-educazione si inserisce la cosiddetta ‘Scuola Genovese’, una corrente artistica sviluppatasi nella città della Lanterna, che utilizzava un linguaggio diverso, più realista, affrontando una grande varietà di temi. Il precursore di questa nuova corrente è senza dubbio Gino Paoli, il primo a imporsi al grande pubblico regalando anche alcune delle sue canzoni a vari solisti di talento che valorizzeranno ancora di più le sue creazioni. Paoli è stato anche uno dei primi a portare in Italia alcuni capolavori della canzone francese, come brani di Jacques Brel e Charles Aznavour. Il cielo in una stanza, Senza Fine, Sassi, Che cosa c’è , Sapore di Sale, Vivere Ancora, sono solo alcuni dei pezzi che Paoli ha inciso già nei suoi primissimi anni di attività, dal ’62 al ’64.
Se di Scuola Genovese parliamo, non possiamo certo dimenticare il raffinato Umberto Bindi, l’unico a vantare una formazione classica, che durante tutta la sua carriera è vittima di discriminazione a causa della sua omosessualità. Come non menzionare quindi la sua Il nostro Concerto, ma soprattutto Il mio Mondo, scritta proprio insieme a Paoli e che fa il giro del mondo grazie alle tante versioni di cantanti stranieri come Dionne Warwick e Tom Jones. Sarebbe sbagliato anche non ricordare Bruno Lauzi con la sua splendida Ritornerai del’63, che è, stilisticamente parlando, la più francese delle canzoni dei genovesi.
E sarebbe imperdonabile non parlare anche di De Andrè, ma, a tal proposito, vi invitiamo calorosamente ad ascoltare lo splendido podcast a lui dedicato e rilasciato dalla nostra redazione nella scorsa stagione, intitolato “Il principe libero”.
Ma sarebbe soprattutto un errore madornale non spendere qualche parola per Luigi Tenco, il diseredato, l’estremista, l’inadeguato. Tenco era un talento straordinario e straordinariamente malinconico. Passionale e polemico, bello e tenebroso, combattuto, le sue canzoni erano pregne di un dolce e affascinante turbamento. Già nel suo primo album del ’62 la meravigliosa Mi Sono Innamorato Di Te rende forse un po’ più chiaro di come il suo animo irrequieto fosse controcorrente. Aveva una vocazione da perdente che contrastava con l’ottimismo imperante dell’epoca ed allo stesso tempo permetteva a molti altri animi di identificarsi con le sue parole, come in Lontano Lontano o in Vedrai Vedrai. Luigi Tenco è stato un artista che, nella sua fin troppo breve e dolorosa esistenza, è riuscito a regalarci uno sguardo diverso sulla vita, meno illusorio, forse più desolato, ma sicuramente anche più vero. Fino al giorno della sua tragica scomparsa, quando, incompreso, si tolse la vita durante il Festival di Sanremo del ’67.
Lontano dalla Scuola Genovese, ma appartenente alla stessa epoca, c’è un dolce e romantico Sergio Endrigo: la sua Io che amo solo te del ’62 è tutt’oggi una delle più belle canzoni d’amore del nostro cantautorato. Endrigo lottò durante tutta la sua carriera contro la becera e ingiusta fama di iettatore e collaborò con poeti come Pasolini e Ungaretti ed anche con il grande compositore argentino Luis Bacalov, come ad esempio nel ’94 per la colonna sonora del film Il Postino, che coincise anche con l’ultima apparizione del nostro amato Massimo Troisi. Questi sono gli anni che vedono protagonisti l’arte inusuale del Signor G, ovvero Giorgio Gaber, grandissimo chitarrista oltre che precursore del genere Teatro-Canzone, il cabaret della canzone scherzosa di Enzo Jannacci nonché uno dei pionieri del Rock’n’Roll italiano (questi ultimi due fanno parte della cosiddetta Scuola Milanese) e non tralasciano il cantautorato intenso, impegnato e fin troppo poco conosciuto di Piero Ciampi. E tra questi indimenticabili artisti arriviamo, infine, a Francesco Guccini, che si affaccia verso la metà degli anni ’60.
Guccini, soprannominato il Maestrone, nato a Modena, ma da sempre legato a Bologna, fu tra coloro che si caricarono sulle spalle il compito di traghettare la canzone d’autore verso il “rinascimento” degli anni ’70: adottava un linguaggio che ribaltava molto i luoghi comuni, ma con arrangiamenti piuttosto tradizionali. Trattava temi inediti come l’Olocausto e la morte, temi sociali e politici. Ha iniziato ad esprimere e sviluppare la sua formidabile arte di narratore quando nel ’64 ricevette in regalo The Freewheelin’ Bob Dylan: la scoperta fu sconvolgente e praticamente di getto scrisse nel giro di pochi giorni Auschwitz e Noi non ci saremo, senza essere neanche ancora iscritto alla SIAE. Quasi superfluo nominare le sue canzoni più importanti, basti ricordarne alcune dal suo primo album-capolavoro intitolato Radici del ’72, in cui troviamo per esempio: La locomotiva, Il vecchio e il bambino, Incontro, Piccola Città. Da sempre, e ancora oggi, nelle parole di Guccini, ci sono insieme la provincia e la città, la cultura popolare e l’America, scrive in modo a tratti ironico, a tratti conviviale, ma sempre in modo onesto e puro.
Restando in Emilia è però doveroso rendere un sentito omaggio ad uno dei più importanti ed innovativi cantautori italiani: Lucio Dalla.
Lucio è stato tante cose in realtà, un continuo fiume in piena dal quale straripavano jazz, fantasie, bugie, sperimentazioni,improvvisazioni, scoperte di talenti, pianoforti, sassofoni e clarinetti. Cominciò con la band Beat-Pop dei Flippers per poi, scoperto da Gino Paoli, buttarsi nella carriera da solista fino a portare nel ’71 a Sanremo la canzone intitolata con la sua data di nascita: 4 Marzo’43. Da quel momento in poi la sua è stata un’ascesa inarrestabile e infinita, fino ai giorni nostri. E’stato un genio senza tempo e senza eguali, capace di inventarsi e reinventarsi in continuazione.
Il suo primo album interamente composto da lui (musica e testi) è del ’77 e si intitola Com’è profondo il mare: tra le chicche di un album che racconta la quotidianità dell’Italia dell’epoca c’è anche l’irriverente ed iconica Disperato Erotico Stomp, un po’ sguaiata, un po’ beffarda ed estremamente naturale, proprio come Lucio.
Quella che vi raccontiamo è la storia di una storia mai vista così. La canzone, almeno fino a quel momento, procedeva per due binari ben distinti: da una parte i cantautori, forti della loro autonomia, dall’altra una più tradizionale spartizione del lavoro tra autori e interpreti. Mogol e Lucio Battisti ruppero ogni regola e crearono un sistema inedito, quasi anomalo. E’ difficile pensare che canzoni come Emozioni o La canzone del sole possano essere state scritte all’interno di un tale sistema di lavoro, talmente è profondo l’intreccio, come se fosse frutto di una sola mente e grazia creativa.
E’ il 1965 quando i due si incontrarono per la prima volta: Mogol era figlio della scuola milanese della Ricordi, un bravissimo paroliere in cerca di emancipazione, di un nuovo tocco d’arte; Battisti era un giovane della provincia di Rieti, cresciuto lontano da tutto e da tutti, geniale come nessun altro nel generare melodie, disposto a sperimentare e freneticamente in cerca di parole. Mogol, il poeta, prese questo ragazzo talentuoso, a cui nessuno sembrava voler dare una chance perché venivano messe in dubbio le sue doti vocali, e vi tirò fuori il meglio. Si perché la voce di Lucio, anche dopo i primi successi di fine anni ’60, era considerata non all’altezza ai tempi del bel canto. Nel giro di un paio d’anni la nuova coppia sforna un numero impressionante di canzoni pazzesche (per sé o per altri) mostrando una sintonia davvero spiazzante. I due si mettono in tasca tutti gli anni’70, incidendo canzoni meravigliose, una dopo l’altra, una diversa dall’altra: la musica di Lucio sa essere soul o psichedelica, può avere sapori etnici oppure venature blues, può offrire un virtuoso rock o un fragile e delicato acustico. L’album Emozioni del 1970 proponeva una varietà di suoni mai sentiti prima, era qualcosa di estremamente nuovo e di altissima qualità.
I 15 anni di Mogol-Battisti furono anni in cui la musica italiana conobbe un rinnovamento che l’avrebbe cambiata per sempre: le storie scritte da Mogol e le note inventate da Battisti hanno lasciato un’impronta indelebile. Sono decine e decine le canzoni composte da loro che sono rimaste nella memoria collettiva e che vengono ancora oggi ascoltate dalle nuove generazioni a conferma di quanto fossero avanti quei due.
To be continued… (vi ricordiamo che potete farvi accompagnare in questo viaggio dalle nostre voci ascoltando il nostro speciale Giro d’Italia in versione podcast.)
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