Giro d’Italia, Viaggio nel cantautorato Italiano – Part II
E torniamo a parlare di cantautorato, abbiamo lasciato Lucio e Mogol a raccontarci delle loro emozioni nello…
E torniamo a parlare di cantautorato, abbiamo lasciato Lucio e Mogol a raccontarci delle loro emozioni nello scorso articolo “Giro d’Italia, viaggio nel cantautorato italiano Part I” ed a distanza di qualche anno troviamo un gruppo di amici in giro per le strade di Roma…
“Io mi ricordo quattro ragazzi con la chitarra..”
è questo l’incipit della nota Notte prima degli esami, brano cult di Antonello Venditti del 1983. Ma facciamo un salto indietro, chi sono quei quattro ragazzi? Giorgio Lo Cascio, Ernesto Bassignano, Francesco De Gregori e Antonello Venditti: quattro giovani di belle speranze che a fine anni ’60 si incontrano al mitico Folk Studio di Roma, diventano amici e in qualche modo creano la cosiddetta Scuola Romana.
Il Folk Studio è stato un piccolo e mitico locale nel cuore di Trastevere in cui si faceva e si ascoltava musica, soprattutto quella rivolta al mondo americano. Un piccolo scantinato, un bar con 4 bottiglie e un palchetto di fortuna alto sì e no 50cm, tanto bastava per fare la storia. Si dice che anche un certo Robert Zimmerman, ovvero Bob Dylan, si sia esibito là nel ’62 davanti al massimo ad una quindicina di persone, mentre era di passaggio per andare verso Perugia per trovare la sua fidanzata dell’epoca.
Venditti e De Gregori là si sono prima conosciuti, poi formati e poi diventati i pilastri che conosciamo del nostro cantautorato. Insieme a Lo Cascio e a Bassignano crearono anche un gruppo, I giovani del Folk, e Venditti nella sua celebre canzone ricorda proprio quei tempi. Venditti e De Gregori, da sempre amici-nemici, così vicini eppur così diversi. Il primo specializzato nel pianoforte, impulsivo, così apertamente popolare, così sanguigno e con una voce così unica; l’altro chitarra in mano, riflessivo, raffinato, nel cantato ma soprattutto nelle liriche. Nel ’72 incidono insieme Theorius Campus con brani scritti e interpretati da entrambi, segue un tour italiano assieme ad un altro artista emergente che, proprio in questa sede, è più che necessario menzionare: Riccardo Cocciante, un piccolo urlatore che si fece presto strada per la sua indiscussa capacità melodica e pianistica. Dal ’73 i quattro amici cominciano a prendere strade separate. Prima Antonello con la sua Roma capoccia, poi Francesco con Alice decollano per diventare ciò che sono oggi. Le loro due carriere sono andate avanti e sono state diverse sia per stile che per repertorio, entrambi però sempre molto amati dal pubblico ed entrambi autori di innumerevoli pezzi indimenticabili della musica italiana. E nonostante tra i due non siano mancate alcune frecciatine, qualcosa in comune tra questi pilastri della nostra storia, comunque sia, è sempre rimasto. E dopo questi cinquanta anni, di recente si sono ritrovati ancora per un grande tour insieme, uno cantando le canzoni dell’altro, come due amici, come due fratelli. Come se il tempo non fosse mai passato.
A proposito di Un Cuore che batte nel cuore di Roma, gli anni ’70 ci regalano anche altri artisti figli della capitale, destinati, oltretutto, a diventarne anche simboli come quell’implacabile macchina sentimentale che è Claudio Baglioni, che rappresentava l’Italia rassicurante e innocente, e quel circense folle e malizioso che è Renato Zero, simbolo di un’Italia trasgressiva e più stupefacente. Entrambi dimostrarono che, nella Roma dell’epoca, due mondi così diversi non erano poi così distanti tra loro. Ma gli anni ’70 sono anche gli anni figli del ’68 con le loro lotte studentesche, operaie e femministe, che lasciano un grande spazio anche alla canzone ‘impegnata’, sempre più politica e sociale.
A Milano c’era il professore di lettere classiche, Roberto Vecchioni, che iniziò scrivendo a lungo per altri interpreti per poi incidere lui stesso la sua prima canzone di successo nel ’71: l’intensa Luci a San Siro, in cui ritroviamo già tutto il suo repertorio, amore, nostalgia, la paura del futuro ed i primi temi politici. Questo brano è stato scritto osservando San Siro dal Monte Stella, una montagnola nella periferia di Milano costruita sui detriti dei bombardamenti della guerra: è ancora oggi un posto dove si va a guardare il tramonto o le stelle.
In quegli anni, sempre a Milano emersero anche i vari Branduardi, il ‘Menestrello’ della tradizione folk e di quella celtica; Concato, con quel riconoscibilissimo e distintivo cantato jazzato; Finardi, che iniziò come uno dei primi rockers per poi prendere la strada del cantautore sensibile e anche un po’ sperimentale. Arriva invece da Genova un ventenne che a 13 anni rimase folgorato dal 45 giri dei Beatles, Please Please Me, e che, soprattutto a inizio carriera, lascia un importante solco sulla strada del nascente progressive italiano. Per Ivano Fossati la tematica del viaggio è uno dei tempi principali del suo repertorio, proprio come un vero viaggio è stata la sua storia: nella prima parte della sua carriera, dopo la parentesi nel gruppo Delirium, è stato un vero protagonista degli anni ’70 e degli ’80, ha composto fantastici brani per altri (prevalentemente per voci femminili), ha fatto progressive, rock, musica d’autore ed anche musica etnica: riuscendo così a dipingere l’affresco di un intero paese.
C’è però un altro artista che passò anche dal Folk Studio dell’epoca, un po’ sgraziato, un po’ monello, che faceva anche fatica a farsi accettare e che nemmeno era convinto di avere una voce per cantare. All’inizio si firmava come Kammamuri’s, ma tutto cambiò quando nel ’74 incise il suo primo album firmandosi col suo vero nome e cognome: Rino Gaetano. Rino ha saputo parlare di emigrazione, di miseria, di emarginazione, inserendo tali concetti all’interno di una messinscena fanciullesca, provocatoria, travolgente e giocosa: la musica era usata per un grande gioco di presa in giro. Raccontava l’Italia con tutti i suoi difetti e lo faceva in modo ironico e scaltro, c’era chi lo amava, certo, ma erano anche tanti quelli che non sono mai riusciti a capirlo e ad accettarlo. La sua breve carriera si è spenta insieme a lui quando una notte nell’81 la sua auto si schiantò contro un camion.
Ma questo articolo è la seconda parte del nostro giro d’Italia e quindi vogliamo percorrerla insieme a voi. Sì perché la scena musicale dei cantautori degli anni’70 era davvero in fermento.
C’era un altro “figlio di Roma”, il Califfo, Franco Califano: immenso autore di canzoni che hanno fatto emozionare un po’ tutti, soprattutto le tante interpreti donne alle quali regalava i suoi testi: Ornella Vanoni, Mina, Milva, Mia Martini, Fiorella Mannoia, giusto per fare qualche nome, senza considerare la ancor più lunga lista degli interpreti maschili. Califano si mise in seguito anche a cantare le proprie canzoni per raggiungere definitivamente il successo nel’76 con la sua Tutto il resto è noia. E’ stato sicuramente il Re delle canzoni che parlano d’amore, che fosse quello vero oppure quello di un’avventura.
Salendo in Piemonte, ad Asti, c’era un avvocato che si divertiva anch’egli a scrivere per altri e continuò a farlo anche quando nel ’74 iniziò a far sentire nei suoi dischi quel suo inconfondibile vocione sgarbato, accompagnato dal pianoforte e davvero l’unico all’epoca immerso nel jazz, nello swing e anche in ritmi sudamericani: il persuasivo Paolo Conte. Arriva da Torino invece colui che ha composto 3 canzoni che fecero il giro del mondo a fine anni’70: Ti Amo, Tu e Gloria. Umberto Tozzi è sicuramente uno dei cantanti italiani più amati all’estero.
Tornando verso il centro-Italia, nasceva a Teramo un chitarrista formidabile, un personaggio atipico e decisamente avanti rispetto ai suoi contemporanei. Ivan Graziani ha portato un nuovo approccio al rock nella canzone italiana ed al contempo una nuova, originale, vena malinconica. Prima sessionman, poi autore fin troppo sottovalutato di canzoni come Lugano Addio, Pigro, Monnalisa e Firenze.
Manca all’appello Napoli, i Vesuviani. Ci teniamo a citarne almeno due. Un napoletano in quegli anni salì alla ribalta lasciando il segno, grandissimo chitarrista di formazione blues nonché uno dei musicisti più innovativi nel panorama italiano. Iniziò a scrivere e a cantare in dialetto e a soli 18 anni, nel ’77, compose il suo primo album che aveva all’interno quello che poi è diventato una sorta di inno ufficioso proprio della sua amata città: Napule è.
Pino Daniele è stato un artista versatile come pochi, nella sua carriera ha collaborato con tantissimi artisti di pregio italiani ed internazionali: i suoi testi sono diretti e dirompenti, la sua musica è un mare aperto, pieno di tante cose, soprattutto di blues.
E poi abbiamo il menestrello del rock, quello con la chitarra a tracolla e l’armonica a bocca, che lanciava pungenti canzoni di protesta, con testi a volte spudorati, e non disdegnando talvolta la compagnia di Pinocchio o di Peter Pan: Edoardo Bennato è un artista che ha saputo fondere come pochi folk, blues e rock e che ha saputo usare la favola in musica per esprimere con ironia i paradossi della vita.
Dalle parti di Catania arriva un soprannome forse non molto umile, ma sicuramente meritato. Il ‘Maestro’. Franco Battiato iniziò a calcare i palcoscenici e gli studi di registrazione ad inizio anni ’70, con dischi colmi di follia e di una genialità sempre aggraziata, sempre solenne, oltre ad essere fortemente sperimentale. Poi, per una scommessa, nel ’79 se ne uscì con un disco di canzoni, vero.
“io sostenevo che il modello delle canzoni di successo di allora fosse semplice. E allora,rispondevano loro, perchè non le scrivi tu? Accettai la scommessa e incisi “L’Era del cinghiale bianco”. Avevo ragione io: vendetti 150mila copie”.
Ed era solo la prima parte di una trilogia che avrebbe ridefinito il concetto di musica pop in Italia: nell’80 uscì Patriots e nell’81 La voce del padrone in cui il pezzo Centro di gravità permanente diventa lo specchio della forte crisi di identità che stava trasformando il nostro paese. Nessuno scriveva e ha scritto come lui. L’enigmatico Battiato era un avanguardista capace di tutto, nei suoi 45 anni di attività ha collezionato numerose fantastiche Hit anche se, di fatto, non è mai stato interessato nella ricerca del successo.
Se Battiato da Catania trasformò il Pop, il Blues si trasformò a Reggio Emilia grazie ad un altro grandissimo artista degli anni ’80 e ’90: ovvero ad Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero. Colui che ha venduto più di 60 milioni di dischi nel mondo tra album e singoli, colui che ha collaborato e stretto amicizia con artisti del calibro di Eric Clapton, Miles Davis, B.B. King, Sting e soprattutto Joe Cocker (suo idolo oltre che amico), colui che ha saputo fondere alla perfezione la melodia mediterranea con il blues, il soul ed il gospel dell’America. Una voce splendida, inconfondibile, che da sempre e ancora fa emozionare intere generazioni. Con l’album Rispetto nell’86 comincia a riscuotere successo, ma in particolare i seguenti Blue’s dell’87 e Oro, incenso e birra dell”89 sono immortali capolavori di un genere che in Italia non è mai stato così ben interpretato con tanto trasporto e passione da nessun altro.
E arriviamo ad immergerci negli anni ’80. Quel folle decennio che rappresenta quell’agglomerato di generi, di idee, di identità e di crisi di identità, quel cocktail in cui convivono tante nuove correnti musicali. Enrico Ruggeri, per esempio, è tra i primissimi a cavalcare l’onda della new wave e del punk e lo fa soprattutto insieme ai Decibel, per poi iniziare una carriera da solista che lo porterà ad essere protagonista nella scena rock, nella scena della musica d’autore e in gran parte anche come autore di molti successi per diverse cantanti. In questo decennio vediamo anche un ragazzo di Cortona che comincia quasi per caso a fare il DJ e poi nell’88 pubblica il suo primo album Hip Hop intitolato Jovanotti for president che riscuote da subito un grande successo. Da quel momento Lorenzo Cherubini non si è mai fermato, si è trasformato ed evoluto negli anni, offrendo una grande varietà di sound, dall’hip hop al funk, dal rap alla canzone d’autore più classica.
E in questo decennio pieno di energia, nelle musiche di una dissacrante e provocatoria Donatella Rettore ed in quelle dell’arlecchino Roberto Camerini troviamo perfino frammenti di disco e di synth-pop. Ma rimanendo in tema Italo-Disco non possiamo tralasciare il successo dell’83 Self Control di Raffaele Riefoli, in arte Raf: sarà proprio lui, oltretutto, a scrivere la musica di Si può dare di più cantata nell’87 dal trio Tozzi-Morandi-Ruggeri e che si aggiudicò il Festival di Sanremo. Proprio in questi anni riscuote successo Ivana Spagna, autoproducendo due canzoni dance in inglese di cui una è la nota Easy Lady, alla faccia di chi le diceva che “una cantante italiana che si fa chiamare Spagna e che canta in inglese non avrà mai successo”.
Tornando al rock, impossibile tralasciare Vasco Rossi, che proprio durante questo pazzo decennio compose la maggior parte delle sue opere migliori, 40 milioni di dischi venduti, protagonista indiscusso di una vera e propria rivoluzione musicale con brani che riportano tematiche sociologiche ed esistenzialiste. Ma c’è anche una ragazza di Siena che esordisce a 22 anni nel ’76: trasgressiva, un po’ punk e moltofemminista. Nell’82, Gianna Nannini con Latin Lover diventa celebre, e non solo in Italia. Alla Gianna piace urlare, come uno dei suoi miti (Janis Joplin) e le piace proporsi come donna indipendente, sfrontata e sincera. Tutte qualità che la renderanno una delle attrici principali della scena musicale italiana degli anni ’80 e ’90.
E infine, arriviamo alla generazione X e, di conseguenza, agli anni ’90. Tutti coloro che sono nati dal’65 all’80 hanno potuto vivere appieno tutto ciò che questo decennio cult ha saputo offrire, anche e soprattutto dal punto di vista del cantautorato.
Proprio dagli Ottanta arrivava Luca Carboni, il ragazzo che se ne stava fuori a spiare i cantautori famosi che mangiavano dentro la famosa Osteria da Vito a Bologna. Colui che poi prende coraggio, entra e consegna una busta con alcuni suoi testi a Lucio Dalla. Il giorno dopo Luca si ritrova in studio di registrazione. Carboni scrive e canta in modo sensibile, delicato, senza chissà quali grandi ideali per la testa: ha una predisposizione alla riflessione e ad un pensiero non aggressivo rivolto al silenzioso smarrimento delle vite dei giovani. E nel ’92 esce il suo quinto lavoro in studio Carboni con Ci vuole un fisico bestiale, La mia città e soprattutto Mare Mare: un album da primato che nello stesso anno lo porterà a vincere sia il Festivalbar che il premio come miglior artista a Vota La Voce.
Rimanendo in Emilia, più esattamente a Correggio, troviamo Luciano Ligabue, che nel ’90 cerca di dire la sua in un modo diretto e piacevolmente rock. Ha il vantaggio che il rock ormai è un genere già maturo ed i suoi primi due dischi conquistano rapidamente pubblico e critica: è un trionfo di provincia, di giacche in pelle e stivali e di vino e di onesti e forti sentimenti che sgorgano dritti dalla pancia.
Arriva anche una nuova e vera cantautrice rock, si chiama Carmen Consoli. Esordisce nel ’96 partecipa a Sanremo con il suo Amore di Plastica che le fece ottenere subito grandi consensi, anche radiofonici. L’anno successivo, sempre a Sanremo, cantò Confusa e Felice e fu eliminata subito dopo la prima serata: ma il pezzo è un biglietto da visita potentissimo e la sua carriera ha sempre proceduto a grandi vele distinguendosi con canzoni emozionanti, raffinate ed anche un po’ complesse.
In questo periodo, un nuovo capitolo Pop italiano lo hanno aperto senza ombra di dubbio gli 883. Nel ’92, Hanno ucciso l’uomo ragno sfonda ovunque, ed è solo l’inizio delle loro svariate scalate in classifica. Max Pezzali e socio hanno la grande capacità di cantare con il linguaggio dei giovani ed allo stesso tempo di regalare in note squarci di vita vissuta, la loro stessa.
Lucio Dalla ne scoprì ancora molti di talenti, il suo pupillo era Samuele Bersani: la sua canzone è tenera e incrollabile, malinconica e poetica. Samuele rappresenta uno degli eredi dei grandi del nostro cantautorato. Nel ’97 incide quello che è considerato il suo capolavoro: Giudizi Universali.Questi sono anche gli anni dei primi successi del grande Masini disperato, dell’amore tra 100 anni di Ron e Tosca, di Nek che parla di Laura, degli inizi della triade di grand class romana formata dagli amici Fabi-Silvestri-Gazzè, del ballo di San Vito di Capossela, del Supercafone e di tutti quelli che benpensano, gli anni di Eros Ramazzotti che proviene dai borghi di periferia degli ’80… e “Se bastasse una grande canzone”?
In questi due articoli e nel podcast omonimo “Giro d’Italia. Viaggio nel cantautorato Italiano in 12 tappe” abbiamo provato a portarvi in viaggio con noi in Italia, tracciando le linee principali sulla nascita e crescita della nostra canzone, almeno fino alla fine del millennio. La canzone italiana fa parte del nostro tessuto sociale e culturale, da sempre. Sappiamo bene che all’appello mancano tanti altri artisti che hanno dato un grande contributo a questa causa. La canzone è poesia e chi la sa utilizzare al meglio ci fa rendere conto che spesso un testo, bello o brutto che sia, potrebbe non avere senso o il giusto valore senza un’adatta melodia. E viceversa. Per citare Gino Castaldo nel suo “Il romanzo della canzone italiana” dal quale questo podcast ha preso ispirazione,
“la canzone non è inferiore alla poesia, ne è parte integrante: la verità è che una canzone può avere un testo poeticamente raffrontabile, ma non ne ha necessariamente bisogno”.
E di questo abbiamo voluto parlarvi, di nient’altro che di simbiosi tra parole e musica. Niente di più bello.
Alfabeto del Rock