“Pressure Machine”: i Killers raccontano la provincia americana

“Pressure Machine” è il settimo album dei Killers, ma per certi versi può essere considerato il primo:…

Pressure Machine” è il settimo album dei Killers, ma per certi versi può essere considerato il primo: un inedito filone musicale e narrativo per la band, che confeziona un lavoro frutto della maturità sonora e personale acquisita nei suoi vent’anni di carriera.
Pubblicato nell’agosto del 2021, a un solo anno di distanza dal precedente “Imploding The Mirage”, questo album vive sopra, insieme e grazie a un elemento fondamentale: i testi.
Le canzoni, infatti, sono nate come poesie, scritte da Brandon Flowers nei mesi più duri della pandemia, quando l’isolamento forzato lo ha portato facilmente a ripensare a quella stessa sensazione di “prigionia” e restrizione provata da ragazzino nella piccola cittadina in cui ha vissuto dai dieci ai sedici anni: Nephi, centro di poco più di 5.000 anime nello Utah.
Le canzoni sono nate partendo da questi testi, che uniscono i ricordi reali di Flowers alle impressioni evocate da quegli anni, e costruiscono una sorta di documentario musicale che ripercorre la vita delle persone in una piccola comunità della provincia occidentale americana.
Nonostante i testi siano la colonna portante di questo lavoro, l’aspetto sonoro non è assolutamente da meno: qui si abbandonano le atmosfere glam degli album precedenti (dalla fortissima doppietta di “Hot Fuss” e “Sam’s Town”, fino a “Day & Age” e “Battle Born”, o al più recente “Wonderful Wonderful”) per un approccio più acustico, e, soprattutto, ritroviamo il chitarrista Dave Keuning, assente in “Imploding the Mirage”, che torna a impreziosire in maniera rilevante alcuni dei momenti chiave dell’album.

Pressure Machine” non è esattamente un concept album, quanto piuttosto un racconto corale di una comunità – quella di Nephi, appunto – e di continui rimandi tra vite simili ed elementi ricorrenti che tornano nelle canzoni ogni volta con una luce diversa: i cavalli in una canzone corrono liberi, in un’altra muoiono sotto la pioggia; il treno in un brano passa all’improvviso e uccide sul colpo, in un altro è un’ombra costante di qualcosa che non arriva mai.

Quasi tutte le canzoni si aprono con l’audio delle voci degli abitanti di Nephi, registrate da un collaboratore dei Killers che, su idea del produttore Shawn Everett, per un giorno ha girato per la città raccogliendo ore di materiale.
Queste voci ci accompagnano passo a passo tra le storie delle persone che nascono, crescono e quasi sempre muoiono in questa cittadina dell’ovest americano (e in moltissime altre), e ci rende uno spaccato dell’America che esula dai sogni di Los Angeles, dalle luci di New York e dalla letteratura chic di San Francisco.
Per chi conosce la band di Las Vegas, questa non è certo una novità: la capacità di raccontare l’America più autentica, fatta di luci come di deserto, di sogni di libertà come di muri, di multiculturalismo e razzismo, di democrazie e pistole è un marchio di fabbrica dei Killers. In questo disco, però, si fa un deciso salto di qualità: perché al racconto della città si unisce il vissuto personale, ai personaggi creati dalla penna si uniscono i ricordi reali. Ne emerge un dipinto senza filtri, duro ed empatico al tempo stesso, che rafforza le influenze springsteeniane che da sempre soffiano sulla band: alcuni, infatti, hanno paragonato questo album al “Nebraska” del Boss, di cui riprende e condivide la scrittura in isolamento, il registratore e il racconto amaro e brutale delle vite di provincia.

Non ci resta che iniziare il viaggio: immaginiamo di prendere in mano il registratore e andiamo a conoscere gli abitanti di Nephi.

Nephi

West Hills
“Just a nice small community, everybody knows everybody, good place to raise kids, we’ll be forever” – They got me for possession of enough to kill the horses running free in the west hills”
[“E’ una bella e piccola comunità, tutti conoscono tutti, un bel posto per far crescere I figli, noi vivremo qui per sempre” – “mi hanno arrestato per possesso di droga, così tanta che ucciderebbe i cavalli che corrono liberi sulle West Hills”]

Accompagnati da una partenza dolce e malinconica, veniamo introdotti a Nephi e alla sua vita tranquilla: le persone che ascoltiamo ci dicono che si tratta di una piccola cittadina, perfetta per metter su famiglia, in cui tutti conoscono tutti; un microcosmo che invoglia a rimanere lì tutta la vita, senza bisogno di viaggiare o vedere granché altro. Brutale arriva però anche l’ombra, l’altro risvolto della medaglia: la voglia di scappare. E se non è possibile farlo fisicamente, ecco che arriva la droga: inizialmente l’evasione per eccellenza, poi una facile condanna, alla dipendenza o al carcere. Il pezzo si chiude in maniera forte e rabbiosa, come la frustrazione delle persone e come la corsa libera dei cavalli sulle colline.

Quiet Town
“Oh, the train every two or three years tryes to kill somebody” – “the train is a way to get out of this life if you get hit by it”
[Oh,il treno ogni due o tre anni uccide qualcuno – “credo che il treno sia un modo per uscire da questa vita, se ne vieni colpito”]

Nella canzone migliore dell’album, l’influenza di Bruce Springsteen è palese, quasi a sembrare un vero e proprio tributo: una intro anni ’80 con tanto di pianola e synth lascia subito spazio all’armonica e alle chitarre acustiche, su cui Brandon Flowers canta con un accento che sembra ancora più americano del solito. È così che i Killers decidono di raccontare la storia tragica dei due giovani adolescenti (compagni di liceo di Brandon) che negli anni ’90 persero la vita in un brutale incidente, colpiti dal treno.  
Anche in questo caso, la canzone esplora il contrasto tra la vita tranquilla e pacifica della provincia: “things like that ain’t supposed to happen in this quiet town” (“cose come questa non dovrebbero succedere in questa cittadina tranquilla), come il solo fatto di vivere in una piccola città fosse una garanzia sufficiente per essere al riparo dalle tragedie e dal dolore.

Terrible Thing
“Hey momma, can’t you see your boy is wrapped up in the strangle silk of this cobweb town where culture is king? I’m in my bedroom on a verge of a terrible thing”
[“Hey mamma, non vedi che il tuo bambino è intrappolato nella seta soffocante della ragnatela di questa città, in cui la cultura è sovrana?”]

Questa è la storia di un giovane adolescente omosessuale, che vive il dramma di sentirsi diverso in una comunità impostata sulla religione nel suo senso più bigotto e integralista: una città in cui le ragazze sono fuori luogo se non sognano di diventare Miss Rodeo e sposare un cowboy, mentre i ragazzi, se non puntano a loro volta a sposare una delle ragazze della città, non sono solo strani, sono sbagliati.
Il testo colpisce ancora di più considerando il background di Brandon Flowers, da sempre fervido credente e praticante della religione mormonica che permea la città (Nephi venne fondata come “Salt Creek” proprio dalla comunità mormonica): è una canzone pesantissima, che combina i temi di accettazione, diversità e suicidio, gestita con grande delicatezza, voce, chitarra e armonica. Il falsetto tenue che Flowers usa per le parole “I close my eyes and think of the water” (“chiudo gli occhi e penso all’acqua”) sembra una ninna nanna, con l’invito a chiudere gli occhi e abbandonarsi al sonno.

Cody
“I believe in higher powers” – “Religion is just a trick to keep hard-working folks in line” –  “Who’s gonna carry us away? Eagles with glory-painted wings?”
[“Credo nelle forze superiori” – “la religione è solo un trucchetto per tenere in riga i poveracci che lavorano duro” – “Chi verrà a portarci via? Aquile con ali dipinte di gloria?”]

Ispirata dai fratelli maggiori dei suoi amici, in questa canzone Brandon Flowers utilizza il personaggio di Cody per convergere sensazioni e pensieri di tanti ragazzi degli anni ’80, alle prese col bigottismo americano e la voglia di evadere: se da un lato anche i giovani crescono con una rigida educazione religiosa che li spinge a credere fervidamente in qualcosa al di sopra dell’uomo e del mondo, dall’altro lato la ruvidezza della vita di tutti i giorni li spinge a farsi delle domande ed essere sempre più cinici. Intanto, il favoloso assolo di chitarra di Dave Keuning ci trasporta oltre il dubbio esistenziale che affligge l’uomo da millenni.

Sleepwalker
“we had to be 12 before we could hunt, and now they’ve lowered it, as long as you can hold up a gun and shoot it”
[“prima dovevamo avere almeno 12 anni per poter cacciare, ora hanno abbassato il limite; quindi, lo puoi fare appena sei in grado di tenere in mano una pistola e sparare”]

La canzone è apertamente dedicata al paesaggio naturale e al passare delle stagioni sulla terra: un tema molto caro a Flowers, che ha dichiarato di vedere nel passare ciclico delle stagioni il susseguirsi dei momenti della vita e, soprattutto, una continua possibilità di rinascita personale. Ed è proprio qui che, sgomitando in un contesto duro che dà le pistole ai bambini per avviarli alla caccia, si vede il primo raggio di luce e speranza: “But when the longer days of sun appear, [the leaves] they’ll be rising like an answered prayer” (ma quando le giornate tornano ad allungarsi, [le foglie] torneranno a crescere, come una preghiera accolta”)

credits: Phyllis Burchett

Runaway horses (feat. Phoebe Bridgers)
“it was the saddest thing, I mean, I think most of the crowd was crying. She sat up and laid over her horse, and just cried and hugged the horse, ‘cause she knew that that was her last moments with that horse”
[“E’ stato tristissimo, credo che chiunque stesse piangendo. Lei si mise a sedere e si stese sopra il suo cavallo, e semplicemente continuò a piangere e ad abbracciarlo, perché sapeva che quelli erano i suoi ultimi momenti con quel cavallo”]

Torna il riferimento ai cavalli, l’animale che simboleggia l’anelito alla libertà, ma anche la mansuetudine e l’obbedienza. In questo caso, la voce in apertura ricorda il triste episodio della morte di un cavallo durante un rodeo e dell’abbraccio commosso della sua proprietaria e dell’intera comunità all’animale.
E qui torna anche la grande capacità autoriale di Brandon Flowers di scrivere dal punto di vista femminile (un altro esempio felice e riuscitissimo in questo senso è “Blowback”, del precedente album “Imploding the Mirage”). Aiutato da Phoebe Bridgers, Flowers canta la vita e i sogni (traditi) di una ragazza di provincia, in cui l’amarezza dei rimpianti si mischia alla dolcezza malinconica del tornare a casa, sempre e comunque, anche col vento contrario. La voce dominante rimane quella di Brandon, mentre il tono pulito e soffice di Phoebe fa da contraltare, dolce ma discreto: proprio come la ragazza protagonista della canzone, incapace di essere altrettanto protagonista della sua vita.
“Small town girl, put your dreams on ice, never thinking twice. Some you’ll surely forget, and some that you never will”
(“ragazza di provincia, hai congelato i tuoi sogni, senza pensarci due volte. Alcuni sicuramente li dimenticherai, altri non li scorderai mai”)

In the Car Outside
“Hi Beth, I’m probably gonna have to get up at the buttcrack of dawn tomorrow” – (“why?”) – “Dammit John! I lost that frickin’ steel line”
[“Ciao Beth, credo che dovrò alzarmi prima dell’alba domani mattina” – (“perché?”) – “Cavolo John, ho perso quella dannata vite/barra d’acciaio”]

Le voci che sentiamo in apertura sono quelle di un operaio in officina che telefona alla moglie mentre il suo capo lo richiama.
Un’immagine simbolica per la “ordinary life” nel suo senso più piatto: un lavoro duro e insoddisfacente, una moglie stanca dei problemi di tutti i giorni. E, mentre ci addentriamo nella canzone, ad emergere è proprio il ritratto di una famiglia ordinaria, ma sola, chiusa tra le mura (fisiche) della sua casa e quelle (metaforiche) della sua vita, che chiuso le tende e lasciato fuori sogni, aspettative, ambizioni.
“It’s like waiting for a train to pass, I don’t know when it’ll pass” (“è come aspettare che passi il treno, non so quando passerà”): di nuovo, il treno. Lo stesso oggetto capace di uccidere giovani vite e falciare sogni ora è qualcosa di intangibile, che si aspetta da sempre, senza nemmeno sapere bene cosa si sta aspettando.
È il pezzo più simile allo stile a cui i Killers ci hanno abituato, con batteria veloce, synth e suoni anni ‘80: non siamo così lontani dalle melodie di “Spaceman” (da “Day & Age, 2009), eppure qui non ci sono pianeti lontani e piume colorate, ma stiamo parlando di solitudine, fatica, malinconia.

credits: cowieboys on Youtube
credits: cowieboys on Youtube

In Another Life
“There’s a lot of opioids going around, it makes you feel pretty damn good, everyone’s just trying to escape something”
[“Girano un sacco di oppiacei, ti fanno sentire dannatamente bene, ognuno qui cerca di scappare da qualcosa”]
Nell’intro vocale sentiamo parlare di oppiacei, del potere che hanno sulle persone e della dipendenza che creano facilmente: un modo per evadere dalla routine quotidiana in cui le giornate sono tutte uguali, ma anche un velocissimo viaggio verso la distruzione fisica e mentale. Un riferimento marcato alla crisi degli oppioidi (sia quelli dei farmaci regolarmente prescritti che quelli delle sostante illegali) che da decenni affligge gli Stati Uniti, e che tra il 1999 e il 2019 ha causato più di 500.000 overdose mortali.

Il consumo di sostanze stupefacenti risponde a un desiderio di evasione, momentaneo o continuo che sia: e in questa canzone il tema è proprio quello della classica domanda che prima o poi bussa alla nostra porta. “Chi saremmo stati in una vita diversa?” “La nostra vita è esattamente quella che avevamo sognato o quella che ci siamo fatti andare bene?”. Sono domande che, volenti e nolenti, tutti ci facciamo prima o poi, e riusciamo a visualizzare molto bene l’uomo che, solo in un desolato pub dello Utah, se lo chiede mentre ascolta un vecchio jukebox che suona solo canzoni country, con “storie tutte simili alla mia”.

Desperate Things
Nel punto qualitativamente più alto dell’album (insieme a “Quiet Town”), l’atmosfera è cupa, malinconica: il verso ripete e ripete la stessa melodia, quasi come fosse una cantilena triste.
E non potrebbe essere diversamente, perché “Desperate Things” racconta una storia di violenza domestica, e del lato oscuro dell’amore, capace di rendere ciechi davanti all’ovvio e di giustificare anche i gesti più abbietti. La canzone vive sul continuo contrasto tra suoni delicati e distorsioni cupe: la chitarra ci guida in tutto il pezzo, alternando accordi soffici e lampi improvvisi.

Nella prima parte della canzone, ad essere cieca è la ragazza amata dalla voce narrante. Lei accetta le botte del marito, le giustifica, le minimizza; non ha il coraggio di lasciarlo e di ricostruirsi una vita con una persona che la ama.
Nella seconda parte della canzone, invece, è proprio questa stessa persona a perdere vista e lucidità, e a fare qualcosa di terribile: sulle inquietanti parole che segnano la svolta oscura del personaggio “you forget how dark the canyone gets” “(ci si dimentica quanto il canyon diventi buio”), dei suoni baritonali, improvvisi e distorti ci fanno capire che la prospettiva si è ribaltata. Ora è lui ad avere nella macchina l’uomo che ha abusato della sua amata, nel cuore della notte, in un canyon buio e tetro: il finale è facilmente immaginabile, perché “when people in love are desperate enough to abandon their dreams, people do desperate things” (“quando le persone innamorate sono abbastanza disperate da abbandonare i propri sogni, fanno cose disperate)

credits: finleyholiday on Youtube
credits: finleyholiday on Youtube

Pressure Machine
“And he wasn’t moving away from here, and we could build a house here”
[“Lui non si sarebbe trasferito da nessuna parte, quindi potevamo costruire una casa qui”]

Arriviamo al punto in cui ci avviciniamo a scoprire cosa sia la “pressure machine” che dà il titolo all’album: La religione? L’imperturbabile passare del tempo? La brutale ripetitività della vita dedicata al lavoro e alla casa? Ad intrecciarsi in questa canzone, infatti, sono i temi del tempo che passa veloce, la malinconia dei genitori che vedono i figli crescere, i dubbi dell’uomo che si sente minuscolo sotto le stelle lontane e brillanti.
Come in tutto l’album, i versi sono pervasi dal senso di malinconia per quello che sarebbe potuto essere e che invece non è stato, mentre la vita ci scorre tra le dita in maniera più veloce anno dopo anno (“every year goes by faster than the one before”).
In una sorta di elegia funebre, il violino accompagna le parole finali: “Life’ll grow you a big red rose, then rip it from beneath your nose, and run it through the pressure machine, and spit you out a name tag memory” (“La vita ti farà crescere una bellissima rosa rossa, poi te la strapperà da sotto al naso, la farà passare nel rullo compressore e te la sputerà fuori come una targhetta commemorativa”)

The Getting By
“It’s just a small town feeling, it’s living in this small town”
[“E’ proprio la sensazione di vivere in una piccola città, è il fatto di vivere in una piccola città”]

Il nostro viaggio a Nephi si chiude con una ballata dolce e morbida, che vuole ribadire ancora una volta la difficoltà quotidiana di una vita con poche velleità, in cui la maggior parte delle persone non è mai stata oltre le colline circostanti e non ha mai visto il mare, ma anche darci un po’ di speranza. La canzone, infatti, diffonde un sottile fascio di luce, con la voce di un padre che invita il figlio a resistere e avere pazienza, giorno dopo giorno, fino a che non otterrà quello che vuole davvero.
A chiusura del brano – e dell’intero album – arriva il fischio del treno, che continua a passare, ogni giorno, mentre i giorni e le vite passano: siamo ancora in tempo per decidere se farci travolgere, guardarlo da lontano, oppure salirci al volo.

credits: Olivia Bee

Quelle che abbiamo attraversato sono tutte storie di persone che hanno lavorato duro, che hanno abbandonato ambizioni e sogni particolari e si sono adeguate a un microcosmo in cui tutti conoscono tutti, in cui l’amore della tua vita non può che essere uno dei tuoi compagni di scuola e in cui il male si insinua nelle vite delle persone a volte come episodio tragico (l’incidente del treno che uccide due adolescenti con la vita davanti), a volte come un’ombra che osserva le famiglie nascosta dietro le tende di casa (il ragazzo omosessuale che medita il suicidio nella sua camera da letto, la violenza domestica su una donna che accetta e ritorno in quella casa ogni sera).

Sopra tutte queste teste, come un unico tetto, c’è la religione, intesa come un’incrollabile fede in qualcosa di distante, per accettare meglio quello che ci capita da vicino: non c’è giudizio, non c’è condanna. La fede, per quanto paradossale, è parte integrante di quella cultura americana che si ritrova in chiesa la domenica, ma non disdegna l’uso delle pistole: non c’è colpa a nascere in una piccola città dello Utah, né a decidere di rimanerci a vivere tutta la vita. Il racconto che Brandon Flowers fa della sua vecchia cittadina è sicuramente molto aspro e diretto, ma al tempo stesso estremamente dolce ed empatico.

La forza dell’album sta nell’unione tra atmosfere sonore e testi narrativi, entrambi in grado di permettere all’ascoltatore di visualizzare i paesaggi, i volti, le case, le auto, il treno e tutti gli spaccati di vita di una piccola cittadina americana raccontate magistralmente dai Killers in questo disco.
Per quanto questo sia indubbiamente più di Brandon Flowers che dei Killers, infatti, è lodevole che il frontman abbia deciso di includerlo nella discografia della band, anziché renderlo un lavoro solista. In questo modo i Killers sono usciti dalla propria comfort zone per regalarci un album crudo, amaro, dolce e compassionevole, incentrato sulla potenza dei testi ma curato in ogni dettaglio sonoro.

Questo disco, che pur è stato accolto positivamente dalla critica, non ha avuto grande risonanza, e i Killers stessi hanno deciso di non estrarne alcun singolo: certamente un gesto che solo una grande band può permettersi, ma anche e soprattutto un atto dovuto a questo album. “Pressure Machine” è un racconto corale che va ascoltato per intero, e che ha senso solo nel susseguirsi dei suoi brani e delle storie che racconta: le vite di chi non è mai stato protagonista di nulla diventano il centro delle canzoni di una delle band più famose del mondo. E lo fanno proprio grazie alla voce di un (ex)ragazzino che ha deciso di non farsi schiacciare dal treno, né di aspettarlo invano, ma di salirci per andare oltre. Ma senza mai dimenticare da dove è partito.


Sara Bernasconi

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Alberto Pani

Blogger

Cresciuto ai piedi delle ridenti colline del Monferrato, tra muri di nebbia sei mesi l’ anno, zanzare incazzate nei sei mesi successivi e bocce di vino rosso sempre e comunque per stemperare il disagio così accumulato.

Chitarrista fuori forma.

Fermamente convinto che 8 volte su 10 le cose si risolvano da sole.

Punto debole: la meteoropatia