The Strokes: un tuffo nel passato e nella magia del rock anni 2000
E’ uscita un paio di settimane fa “The Strokes, The Singles – Volume 01”, la raccolta dei…
E’ uscita un paio di settimane fa “The Strokes, The Singles – Volume 01”, la raccolta dei singoli in 7’’ della band nel periodo d’oro 2001-2006: disponibile in vinile e in digitale, si tratta di una vera coccola per i fan della prima ora, per i millennial nostalgici e per tutti i colori che negli ultimi quindici anni dovevano affidarsi a YouTube o al file-sharing per ascoltare perle come la demo “I’ll try anything once” o b-sides di culto come “New York City Cops”.
Già, perché oltre alla raccolta dei singoli usciti in quei cinque anni esplosivi, questo Volume 01 include anche rarità e home recording – come quelli di “Is this it” e “Alone, Together” – che in questi ultimi due decenni hanno alimentato e nutrito il percepito di garage band di culto degli Strokes, a partire dal debutto esplosivo del 2001 e fino agli anni di silenzio che hanno separato la carriera della band in tre parti ben distinte: quella dei primi tre album degli anni 2001-2006 (“Is This It“, “Room on Fire” e “First Impressions of Earth“), quella di “Angles” (2011), “Comedown Machine” (2013) e “Future Present Past” (2016) e, infine, quella di “The New Abnormal” (2020).
Se va detto che anche i lavori più recenti degli Strokes si stagliano facilmente sopra la media delle band alternative rock attualmente in circolazione (brani come “The Adults are talking” e “Bad decisions” del 2020 sono una boccata d’ossigeno per chiunque ami il genere), l’uscita di questa raccolta, oltre a darci la giusta dose di malinconia per i nostri vent’anni, ci offre l’occasione di tornare con la mente agli incredibili inizi della band e di riflettere su come la loro musica abbia saputo influenzare un’intera nuova generazione di artisti.
Tutto è nato Oltreoceano: all’affacciarsi del nuovo millennio, da New York si è alzato il vento che ha smosso la scena alternativa internazionale. Quattro ragazzi poco più che ventenni – che nonostante l’immagine disordinata e gli atteggiamenti poco impostati appartengono all’élite della Grande Mela, un fattore che creerà non poco scetticismo nei loro confronti – hanno scosso a suon di riff l’appisolata scena rock, soppiantata dall’esplosione mainstream dell’hip hop, sdoganato ai più grazie al fenomeno Eminem.
In pochi mesi, il vento ha attraversato l’Atlantico: è da questa parte dell’oceano, e precisamente nel Regno Unito, infatti, che il fenomeno degli Strokes si è diffuso prima, e in maniera più profonda. Il mercato inglese, evidentemente, più di tutti gli altri soffriva la mancanza delle chitarre dopo la fine dell’epoca d’oro del Britpop, e l’atterraggio degli Strokes nella terra d’Albione ha velocemente dato vita a una nuova, ampia e prolifica ondata rock che, da lì ai dieci anni successivi, avrebbe ripreso il comando delle classifiche e della scena discografica.
Una nuova generazione di artisti e band che, proprio grazie agli Strokes, sono partite dai club underground per ridare linfa al genere in tutto il mondo: “Are you guys aware of the craziness you’ve created here?” (“siete consapevoli della pazzia che avete creato qui da noi?”) ha chiesto un giornalista inglese a Julian Casablancas, nel 2001. La risposta, a quanto pare, sta in nomi come The Libertines, Arctic Monkeys, Franz Ferdinand, Razorlight, Kaiser Chiefs, The Horrors, The Others, Bloc Party, solo alcuni dei gruppi che devono agli Strokes l’inizio della loro carriera.
L’inizio di una “Modern Age”
Gli Strokes sono tutt’oggi considerati come la band che ha saputo far rivivere le atmosfere garage degli anni ‘60 ai ragazzi del nuovo millennio, dando nuova luce al genere e ispirando decine di gruppi che ne hanno seguito la via. Come già abbiamo accennato, a dispetto dei testi e dello stile delle loro canzoni, i membri della band appartengono all’alta borghesia newyorkese: il frontman Julian Casablancas è figlio del noto pubblicitario John Casablancas, proprietario della prestigiosa agenzia di modelle Elite Model Management, mentre il chitarrista Albert Hammond Jr è figlio del cantautore inglese Albert Hammond. Sui banchi di scuola di Manhattan conoscono il chitarrista Nick Valensi e il batterista Fabrizio Moretti, diventano amici e decidono di formare una band; dopo un anno, a loro si aggiunge il bassista Nikolai Fraiture, e il gioco è fatto.
Partiti, come moltissimi altri, a suonare nei locali del Lower East Side, in brevissimo tempo gli Strokes hanno registrato il loro EP di debutto, “The Modern Age” (2001), che li ha immediatamente portati oltreoceano, attirando l’attenzione – e l’adorazione – della musica britannica. Il look trasandato e la produzione grezza li hanno subito resi dei messia per la scena inglese affamata di rock: l’atmosfera di revival Sixties unita alle facce sfrontate di questi cinque ventenni in jeans strappati e giacche di pelle non ha solo soppiantato le hit pop e hip hop dalle classifiche UK, ma ha ridato a centinaia di ragazzi la voglia di imbracciare le chitarre e tornare a suonare insieme in una sala prove sporca e claustrofobica.
Nel giro di tre anni, dopo l’uscita dell’esplosivo album di debutto “Is this it” e del secondo lavoro “Room on Fire” gli Strokes non sono solo diventati famosissimi, ma hanno a tutti gli effetti guidato e influenzato una nuova wave di musica rock pronta a invadere classifiche, magazine, palazzetti e ascolti. È proprio in questi anni che nascono gruppi che, inizialmente spinti dall’esempio della band americana, diventeranno punti di riferimento per la cultura musicale inglese degli ultimi vent’anni.
Qualche esempio?
Siamo in una stanza di Bethnal Green a Londra e un ragazzo alto e smilzo, dallo sguardo svampito ma le idee chiare, dice ai suoi amici: “Voglio creare gli Strokes inglesi”: quel ragazzo è Pete Doherty, e i suoi amici sono gli altri membri dei Libertines, band infuocata e disordinata che stravolge la scena brit e a cui ancora oggi viene riconosciuto il merito di aver composto uno dei migliori album rock delle ultime decadi, “Up The Bracket” (2002), di cui abbiamo già parlato.
Più a Nord, a Sheffield, un altro ragazzo smilzo, con la faccia e i capelli da adolescente, comincia a crearsi un discreto seguito proprio eseguendo cover degli Strokes in piccoli club: le cose si evolvono in fretta e, due anni dopo, quel ragazzino debutta insieme alla sua band con l’album, “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”. È il 2006 e sono arrivati gli Arctic Monkeys.
Insieme a questi esempi più celebri, sono tantissimi i gruppi nati e emersi in questi anni, chi con più fortuna chi meno, ma, a prescindere dai risultati in classifica o dall’ottenere una cover di NME, quello che conta è che nei primi anni 2000 nel Regno Unito si ricrea una scena potente e variegata che ridà vita a una cultura punk, fatta di suoni distorti, club sotterranei, eccessi e tanta, bellissima, nuova musica.
La nuova era degli Strokes
Dopo aver dominato e creato un’intera nuova scena, gli Strokes spariscono dai radar per diversi anni: dopo l’album “First Impressions of Earth” (2006), che già denotava un minore fervore espressivo rispetto ai primi due lavori, la band si dedica ad altri progetti. Julian Casablancas crea i The Voidz, Moretti i Little Joy, Fraiture lavora col nome di Nickel Eye e Hammond pubblica alcuni – notevoli – album come solista.
Il ritorno sulle scene con “Angles”, nel 2011, viene accolto da pareri contrastanti, a causa della virata verso suoni più elettronici a scapito delle chitarre distorte e arrabbiate degli esordi. Solo col ritorno con “The New Abnormal”, nel 2020, gli Strokes tornano a incantare i fan della prima ora, con pezzi decisamente più convincenti e un’urgenza comunicativa nettamente più percepibile, forse anche a causa – o grazie – alla pandemia.
Lo sguardo alle origini non vive solo nell’uscita di questa raccolta, ma anche nell’annuncio del prossimo tour estivo, insieme agli Yeah Yeah Yeahs, e all’uscita dell’attesissimo docu-film “Meet Me in The Bathroom”: un intenso racconto delle luci e delle ombre della scena musicale newyorkese di inizio millennio, dominata dagli Strokes insieme a gruppi come gli Yeah Yeah Yeahs o The Moldy Peaches.
Ci sarebbe da riflettere – o meglio, il mercato musicale contemporaneo dovrebbe farlo – sul perché assistiamo sempre più spesso a reunion epocali di band che hanno segnato e formato intere generazioni, come il revival del BritPop, che quest’estate vedrà il tour dei Blur e dei Pulp, o, appunto, il ritorno live di band come i Libertines e degli stessi Strokes, accompagnati da uno dei gruppi con cui hanno condiviso la scena di vent’anni fa. Se, da un lato, questi ritorni ci emozionano e ci fanno sentire degli eterni ragazzi, dall’altro ci sarebbe da chiedersi se i sold out immediati registrati da questi concerti non siano la conferma di un certo piattume, musicale e d’intenti, delle band più contemporanee.
Ma vogliamo scegliere la strada dell’emozione e dell’eterna giovinezza, godendoci i bellissimi pezzi degli Strokes e sognando a occhi aperti ascoltando quei meravigliosi home recording inclusi nella raccolta appena uscita.
Siamo nel salotto disordinato di un appartamento del Village a NY, gli Strokes sono sfatti e svogliati e, tra uno sbadiglio e una sigaretta, si mettono a strimpellare un po’ annoiati. Tra jeans strappati, bottiglie di whiskey e sigarette, nascono le note di “I’ll try anything once” (che poi diventerà il carichissimo singolo “You only live once”): “Ten decision shape your life, you’ll be aware of five about”, inizia così una delle più belle canzoni del gruppo, in cui la voce di Julian è accompagnata solo dal piano. Ecco, noi non sappiamo quali siano le dieci decisioni che hanno plasmato le vite degli Strokes, ma siamo contenti che quella di formare una band ci abbia regalato un’intera generazione di musicisti.
Sara Bernasconi
Fonti a supporto:
– Britannica
– The Guardian