Fontaines D.C., rock e poesia al sapore d’Irlanda
Se vivete nel terzo millennio, avete un’età che va dai venti ai quarant’anni circa e vi piace…
Se vivete nel terzo millennio, avete un’età che va dai venti ai quarant’anni circa e vi piace la musica rock, a prescindere da quanto ne amiate i diversi sottogeneri, è certo che negli ultimi anni vi siate imbattute e imbattuti in un nome: Fontaines D.C.
Uno dei tanti gruppi che affollano le playlist di Spotify e i festival europei di questo strano decennio, ma uno dei pochi ad avere effettivamente una propria impronta distintiva e distinguibile.
Ma da dove nasce la forza di questa band in grado di riportare il sapore post-punk alle nuove generazioni, senza scadere nel già sentito e, anzi, dando linfa vitale alla scena rock odierna?
I Fontaines D.C. nascono a Dublino (“D.C.” sta proprio per “Dublin City”) nel 2017: Grian Chatten (voce), Carlos O’Connell (chitarra), Conor Curley (chitarra), Conor Deegan (basso) e Tom Coll (batteria) si conoscono al British and Irish Modern Music Institute della loro città, ed è lì che si avvicinano e diventano amici, uniti inizialmente dall’amore per la poesia, che li porta a pubblicare due raccolte di liriche ispirate a poeti come Jack Kerouac, Allen Ginsberg, James Joyce e William Butler Yeats. La scuola musicale e la passione per la poesia non sono dettagli da poco: i Fontaines sanno suonare, e lo sanno fare bene, e combinano la tecnica musicale con testi forti e taglienti, intinti in atmosfere intrinsecamente connesse al retaggio culturale irlandese. Sì, perché l’Irlanda è presente nei testi, nei titoli (anche in gaelico), nell’accento, nei suoni.
E si parte proprio da lì: il fulminante album di debutto “Dogrel” (2019) reca già nel titolo un omaggio al “doggerel”, letteralmente “poesia del popolo”, un tipo di lirica burlesca della classe operaia irlandese.
In questo primo disco esplode già chiaramente tutto il potenziale della band, che costella l’album di singoli fortissimi e radiofonici come “The Boys in the Better Land”, che ironizza sul messaggio predominante nella cultura irlandese moderna, secondo la quale paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti assicurino maggiori opportunità di successo professionale, anche in ambito musicale (“if you’re a rockstar, pornstar, superstar, doesn’t matter what you are, get yourself a good car get outta here”), o “Liberty Belle”, che ci chiede sarcasticamente quanto sia liberatorio pensare solo alle cose leggere, senza preoccuparsi del male e delle ingiustizie esplose nel mondo.
In fondo alla tracklist, ad addolcire suoni e umori, arriva la meravigliosa e commovente “Dublin City Sky”, che ci trasporta tra le strade piovose di Dublino, al sorgere di un amore sbagliato. Eseguito in maniera impeccabile durante il live girato all’interno dell’ex carcere di Kilmainham Gaol (location di film cult come “Nel nome del Padre”), in cui centinaia di persone morirono in seguito alla rivolta del 1916, questo pezzo così intenso ha assunto un sapore ancora più emozionante: durante l’esibizione, gli occhi di Grian Chatten guardavano spesso in alto, verso la luce filtrante dalle fessure, evocando lo sguardo dei prigionieri politici irlandesi che, da quelle stesse fenditure, avranno ripensato al sapore fortissimo della libertà, che un tempo cadeva sulle loro notti ubriache come la pioggia sulla loro città.
A un solo anno di distanza, i Fontaines D.C. tornano sulla scena con “A Hero’s Death”, anticipato dal singolo omonimo e dal video musicale con il popolare attore irlandese Aidan Gillen, che ha accettato di partecipare “in cambio di una birra”. Il disco viene candidato al premio di “Migliore album rock” ai Grammy Awards 2021, e un motivo ci sarà: pezzi come “Televised Mind”, “A lucid dream” fanno saltare qualche battito al cuore per riportarci dalle parti di Joy Division e Stone Roses. Paragoni azzardati? A nostro parere, no. Ascoltando un pezzo come “Love is the main thing”, fin dai primi accordi e dalle note calde della voce di Chatten è impossibile non pensare a “Love will tear us apart” e alla voce indimenticabile di Ian Curtis, ma senza l’effetto di una cover: perché i Fontaines D.C. hanno la capacità, più unica che rara, di avvicinarsi a pietre miliari della musica anglosassone senza risultare una ripetizione, ma, anzi, ridando forza e smalto a un genere che mancava dalle scene da quasi quarant’anni.
Il 2022 è l’anno della consacrazione: in aprile esce “Skinty Fia” (“sia dannato il cervo“, un’imprecazione popolare irlandese). Il disco è pieno di pezzi pressoché perfetti, forti, potenti, curati al dettaglio: si esce da Dublino e si arriva a Londra, e il passaggio permette una riflessione ancora più razionale e amara sul complicato rapporto tra irlandesi e inglesi. A ispirare la canzone che apre l’album, l’intensa “In ár gCroíthe go deo” (“per sempre nei nostri cuori”), infatti, è la vicenda di una donna irlandese, residente per decadi a Londra, a cui la chiesa anglicana ha negato di avere una scritta in gaelico sulla lapide. A vivere la difficoltà d’integrazione in Inghilterra è anche lo stesso frontman della band, Grian Chatten, che in un’intervista di qualche mese fa ha raccontato di aver vissuto momenti di disagio legati alle sue origini: in un bar, un ragazzo inglese ha notato il suo accento spiccato e gli ha chiesto divertito di pronunciare altre frasi, trattandolo di fatto come una sorta di attrazione esotica e folkloristica. Pensare a una scena di questo tipo oggi, in una delle città più multiculturali del mondo, fa indubbiamente riflettere, ma, al tempo stesso, rende molto più contemporaneo il senso di appartenenza ancora tanto vivo e radicato nel popolo irlandese.
“Skinty Fia” è un album meno roboante dei precedenti, ma più mirato e lucido. Anche a un orecchio distratto, è chiaro il percorso di maturazione che la band è riuscita a sviluppare nel giro di pochi anni, arrivando a livelli qualitativi così importanti in soli tre album: oltre all’ombrosa e graffiante title track e al già citato pezzo d’apertura, è impossibile non citare le carichissime “Jackie Down the Line”, “Big shot”, “Bloomsday” e “Roman Holiday”, così come pezzi più cupi e distopici come “Nabokov”. Non mancano anche qui le ballate, con la melodia immediatamente orecchiabile e dolce di “The Couple Across the Way”, ma il vero picco dell’album sta nella stupenda “I love you”.
Dietro a un titolo e a una prima strofa apparentemente banale e mielosa, si nasconde il pezzo più politicamente rabbioso della band, e nelle parole ferite urlate da Chatten vengono citati, in ordine sparso: il numero crescente di suicidi tra i giovani irlandesi, l’abominevole vicenda degli 800 scheletri di bambini ritrovati nei pressi di un orfanotrofio a Tuam, nella contea di Galway (“this island’s run by sharks with children’s bones stuck in their jaws” – “questa isola è guidata da squali con ossa di bambino infilate tra le mascelle”), i partiti politici Fine Gael e Fianna Fáil, il legame tra Chiesa e interessi (“I loved you like a penny loves the pocket of a priest”, “ti ho amato come una moneta ama la tasca di un prete”) e la generale frustrazione di una generazione che non può più aspettarsi nulla dalla classe dirigente del proprio paese, pronto a prendersi tutto senza ridare niente (nel video, il frontman arriva a donare il proprio cuore, estratto dal petto sanguinante, a un simbolico altare). La canzone è pervasa da un sentimento di delusione e risentimento verso una nazione alla deriva, ma che è impossibile smettere di amare visceralmente: vi ricorda qualcosa?
E questo è il punto focale: i Fontaines D.C., per loro stessa ammissione, non vogliono essere portatori di messaggi, né portavoce di un paese intero, ma solo esprimere un disagio universale che oltrepassa i confini geografici e abbraccia almeno due generazioni. Se, ascoltando una loro canzone, sentiamo questa vicinanza improvvisa e potente con l’Irlanda e il suo popolo, non è per la bellezza dei paesaggi e il calore dei pub (o, per lo meno, non solo): si tratta di un transfer emotivo dettato dal fatto che viviamo lo stesso complicato, amaro e disorientato sentimento.
In pochi album, questi ragazzi hanno lanciato un messaggio chiaro e inequivocabile, quello di essere una delle migliori cose successe alla musica rock negli ultimi dieci anni. Non a caso, a seguirli non sono solo i loro coetanei, ma anche e soprattutto i trentenni e i quarantenni che in loro rivedono, anzi risentono, l’eco della musica che li ha cresciuti e formati. E che pensano che, per una volta, sia bellissimo poter assistere in tempo reale alla nascita e alla crescita di qualcosa di grande e importante, senza doverlo scoprire anni dopo da Wikipedia o da qualche documentario ma, anzi, vivendolo passo dopo passo in tutta la sua magia.
Sara Bernasconi