Il ritorno dei Blur, tra evoluzione e consapevolezza
Solo qualche mese fa Damon Albarn, durante le interviste per la promozione dell’ultimo album dei Gorillaz, riservava…
Solo qualche mese fa Damon Albarn, durante le interviste per la promozione dell’ultimo album dei Gorillaz, riservava poche parole ai Blur, lasciando aperta ogni possibilità, ma, al tempo stesso, dichiarandosi scettico sull’eventuale futuro della band.
Col senno di poi, è facile capire come fosse solo un semplice modo per bluffare e per non distogliere l’attenzione dei media dalla sua band digitale, ma ciò non diminuisce l’importanza del ritorno discografico dei Blur, uno dei migliori dell’anno fino a questo momento: nel giro di un semestre, una band ferma e assente dalle scene da otto anni ha prima annunciato due concerti sold out allo stadio di Wembley (la venue più grande dove abbiano mai suonato), poi aggiunto un tour internazionale, infine pubblicato un nuovo album, “The Ballad of Darren”, uscito il 21 luglio.
Ci sarebbe da riflettere su come certe band possano essere libere di uscire dalle logiche commerciali dominanti, ormai basate su annunci sensazionalistici con più di un anno di anticipo volti a creare hype intorno a un lavoro ancora prima che ne sia terminata l’effettiva lavorazione, ma non è questo che ci preme sottolineare.
L’aspetto più sorprendente del ritorno dei Blur, infatti, è la loro capacità di essere ancora estremamente attuali e di tenersi lontani dal rischio, altissimo, di scimmiottare sé stessi, come accaduto a tanti altri artisti che, dopo aver incendiato gli anni ’90, hanno trovato ben poco di nuovo da esprimere con i loro lavori più recenti.
E lo si è capito fin dal primo concerto di Albarn&co. nello stadio londinese, a inizio luglio: a tutti i settantamila presenti (c’eravamo anche noi!) è apparso subito chiaro come la band non avesse semplicemente voglia di ricordare il passato con un grande concerto celebrativo, ma, anzi, volesse proprio riprendere il discorso da dove l’aveva lasciato.
La scaletta da “Greatest Hits” di Wembley, infatti, non ha tolto visibilità specifica ai due singoli che hanno anticipato l’album – “The Narcissist” e “St. Charles Square” – usati, rispettivamente, in apertura e in (quasi) chiusura del concerto, come a voler ricordare a tutti, nei punti chiave dell’esibizione, che la storia dei Blur non è ancora finita, anzi.
Nel più recente (e problematico) concerto al Lucca Summer Festival, la band ha suonato per la prima volta anche un terzo pezzo dell’album, forse il più riuscito, “Barbaric”, senza nascondere una certa emozione nell’introdurlo al pubblico. Peccato che la non poco deludente organizzazione del festival, con soli due schermi piccoli ai lati del palco, l’audio ai limiti dell’accettabile e problemi tecnici all’impianto, abbia impedito a molti dei partecipanti di godersi la novità con l’attenzione meritata.
E nonostante ciò i Blur riescono a regalare magia ed emozioni a chi le segue, lasciandoci con la sensazione che sia tutto ancora in gioco.
Ce lo dice l’affiatamento ritrovato tra tutti i membri della band e, in particolare, quello tra Albarn e Coxon, fondatori e colonne portanti del progetto, entrambi attualmente in stato creativo di grazia; ce lo dicono questi primi live ricchi di energia, emozione e divertimento, in grado di riunire più generazioni, dai millennial che hanno vissuto la band nei decenni scorsi, agli spettatori più giovani ma appassionati di rock britannico, fino, ancora, ai figli proprio di quei primi fan.
E ce lo dice, soprattutto, questo nuovo album impeccabile, amaro e attuale, forse il più personale che abbiano mai realizzato. I testi di Damon Albarn, tristi e influenzati da anni personali difficili, ben lontani dal ragazzino dell’Essex che al rock preferiva “the vagueness of pop, its lack of any real message” (la vaghezza del pop, la sua mancanza di qualsiasi messaggio reale), sono pungenti, ma anche consapevoli e fiduciosi, e si articolano per lo più su pieghe vocali delicate (a volte quasi sussurrate) e su melodie intime e profonde. La maggior parte del disco porta l’impronta fortissima del suo frontman – tanto che alcuni pezzi sembrano uno sviluppo di alcune ballate del lavoro solista pubblicato nel 2014, il riuscitissimo “Everyday Robots” – ma il tocco di Coxon e l’apporto mai banale dato dalle linee di basso di Alex James sanno riportare facilmente l’ascoltatore nei territori sonori e melodici che da sempre contraddistinguono la band.
Ecco quindi che ci introducono al nuovo album con uno dei brani più delicati e introspettivi, “The Narcissist”, una poesia struggente e dolorosamente consapevole del tempo che passa e delle inevitabili conseguenze della fama sull’ego. E sulla scia malinconica di questo primo singolo, vediamo “Barbaric“, che condivide parole amare (“we lost the feeling that we thought we’d never lose, and it is barbaric”) poggiandole su un ritmo scanzonato e un ritornello orecchiabile fin dal primo ascolto, o “The Heights“, che avvolge l’ascoltatore in una spirale di accordi e suoni dall’irresistibile eco anni ’90 (vedere alla voce “No distance left to run” dell’album “13”, del ’99) chiudendosi con un picco di distorsioni in cui Graham Coxon è libero di sfogare tutto il suo talento.
“The Ballad of Darren” ci porta in un viaggio dolce-amaro tra la presa di coscienza dei propri demoni e l’accettazione dell’impotenza dell’uomo contro ciò che affligge il mondo, come in “Russian Strings”, che con una melodia dal sapore retrò e una chitarra ci porta diretti sulla spiaggia con le cuffie negli orecchi (“The tenement blocks come crashing down, with headphones on you won’t hear that much… there’s nothing in the end, only dust, so turn the music up”)
Un’altra nota non banale di questi tempi discografici, poi, è come i Blur possano permettersi di inserire uno dei loro nuovi pezzi più riusciti “soltanto” nella versione deluxe dell’album, uscita un paio di giorni dopo la release ufficiale: già, perché quello che per moltissimi sarebbe un singolo di lancio, ossia “The Rabbi“, è diventato semplicemente un pezzo aggiuntivo della tracklist, incastonato tra gli altri senza alcuna promozione. Eppure, in questa canzone c’è tutto dei Blur: la scrittura testuale criptica di Damon Albarn capace, come sempre, di infilare commenti più o meno velati al mondo e alla società che ci circonda (il riferimento al cambiamento climatico non avrebbe potuto essere più puntuale), il riff elettrico perfetto di Graham Coxon, il basso persistente di Alex James, il ritmo affidabile di Dave Rowntree. Il tutto viene condito da una melodia immediata e da un’atmosfera carica di energia, che lascia un senso di pacato ottimismo dopo i toni cupi del disco (“I was lost, then you saved me“): una dichiarazione d’intenti così forte che, effettivamente, la band non aveva bisogno di sottolineare, perché resta lì, per chiunque voglia ricordarsi chi sono i Blur e perché hanno influenzato un’intera era musicale.
I Blur sono tornati portandosi dietro la disillusione e la consapevolezza della nuova, saggia mezza età, unita alla loro magistrale capacità di affascinare con la stessa, eppur tanto diversa, musica che ci ha tenuti incollati alla radio negli ultimi 30 anni. Sono tornati dimostrando di essere ancora in grado di stupirci, onorando il proprio passato nell’unica maniera possibile: ricordandolo e celebrandolo, ma vivendo il presente con la creatività di chi non è mai sazio, con gli occhi e gli orecchi puntati sul prossimo capitolo.
Sara Bernasconi