Jonathan Fire*Eater: alla scoperta di una band da rimpiangere
Nell’infinito mare magnum delle band di tutto il mondo e di tutti i tempi, la storia di…
Nell’infinito mare magnum delle band di tutto il mondo e di tutti i tempi, la storia di un’occasione persa o, peggio, di una fine dolorosa non sarà certo uno statistica rara. Chissà quante volte il destino si è messo tra noi e tanti artisti che avremmo potuto conoscere e amare, e che invece ignoriamo: però, fortunatamente, spesso quello stesso fato gioca anche al contrario, dandoci il modo di incrociare queste storie, anche anni dopo, in maniera del tutto casuale.
Ed è stato proprio leggendo il libro “Meet Me in the Bathroom – Rinascita e Rock’n’Roll a New York” di Lizzy Goodman per approfondire gli anni iniziali di band come The Strokes o Kings of Leon, che invece abbiamo scoperto qualcosa di più oscuro, meno rassicurante, ma ugualmente magnetico: i Jonathan Fire*Eater.
I Jonathan Fire*Eater nascono a Washington D.C., agli inizi degli anni ’90: Stewart Lupton, Tom Frank, Paul Maroon, Matt Barrick e Walter Martin si conoscono al liceo e, dopo qualche cambio di formazione, scelgono di provarci davvero in concomitanza col loro trasferimento al college, a New York.
Tra il 1993 al 1995 cominciano a pubblicare le prime tracce e a farsi notare nella scena underground, grazie a pezzi irriverenti come “The Public Hanging of a Movie Star” e “When Prince Was a Kid“, ma la vera spinta verso la notorietà arriva nel 1996, con l’uscita dell’EP “Tremble Under Boom Lights“: seppur concentrato in soli cinque pezzi, questo mini album è sufficiente a rendere la band velocemente nota nella scena newyorkese.
Già, New York: quella di fine anni ’90 non è la NYC che abbiamo imparato a conoscere oggi e, soprattutto, è una metropoli che non ha ancora conosciuto la sua ferita peggiore, l’11 Settembre. Essere a NY in quel periodo non è uno status symbol, non rafforza alcuna sensazione di appartenenza o di identità, non è sinonimo di prestigio o di creatività, anzi: la città è vittima di una criminalità sregolata e di un consumo di droga incontrollato e quei quartieri che oggi sono considerati i più cool (in primis, Brooklyn e Williamsburg) non rappresentano nulla di particolare nel contesto urbano e sociale del momento.
Anche a livello musicale, la città soffre il dominio della West Coast e del grunge: per chiunque voglia creare una band o iniziare a fare rock, il posto dove andare è Seattle, non certo New York. Ed è proprio in questi scenari apparentemente insipidi e aridi che solitamente si annida una fiamma: la scena della Grande Mela, infatti, ribolle di insoddisfazione e risentimento, due ingredienti molto amati dal punk per dare vita a qualcosa di eccezionale.
Di lì a poco, gli Strokes rivoluzioneranno il mercato indie rock, americano e non, dando una spallata alla musica dance, riconsegnando il potere alle chitarre e alle Converse sporche e, soprattutto, ispirando decine di nuove band. Qualche nome? Yeah Yeah Yeahs, Interpol, The National, The Killers, Kings Of Leon, Vampire Weekend.
Ma facciamo un passo indietro, perché questa esplosione non ci sarebbe stata senza una prima fiamma: proprio quella dei Jonathan Fire*Eater. Sono loro a ricordare a New York e a migliaia di ragazzi cosa siano il rock e il punk, come rabbia e delusione possano essere incanalate nei suoni grezzi, come non sia necessario saper cantare come Eddie Vedder per comunicare qualcosa.
E tutto questo i Jonathan Fire*Eater lo fanno principalmente attraverso il loro frontman, Stewart Lupton.
Gli ingredienti per la ricetta perfetta ci sono tutti: Stewart è bello, ombroso, tormentato, sregolato (profondamente dipendente da alcool e droghe), poetico. Sì, perché i testi di Lupton, oscurati dal suo modo di stare sul palco e dai suoi eccessi, contengono metafore raffinate e riferimenti letterari, come quelli alle poesie di Charles, l’autore a cui Stewart, per sua stessa ammissione, deve l’amore per la poesia, scoppiato negli anni del liceo.
La ruvida “Give Me Daughters“, uno dei pezzi più noti dei Jonathan Fire*Eater, si chiude con parole come: “When at night coming down on crutches, you will never be alone, oh you will become so beautiful to think of it makes me cry, and every month a brand new letter written from my motel kitchen to tell funny jokes and a little hope, if you ever get tired of living“, un chiaro riferimento ai versi di “The Something“, in cui Silic scrive “Here come my night thoughts. On crutches.” (“Ecco che arrivano i miei pensieri notturni. In stampelle).
I suoni, le atmosfere e le esibizioni live della band riportano inevitabilmente ai Joy Division: il tormento interiore permea testi, canto e performance e, purtroppo, segnerà la stessa fine tragica e prematura.
Nel momento di maggiore visibilità, la coesione della band si spezza velocemente sotto i colpi delle liti, dell’abuso di droghe e dell’insofferenza del suo talentuoso quanto irrisolto frontman, e nel 1998 i Jonathan Fire*Eater si sciolgono.
A ricordare, in maniera tanto chiara quanto malinconica, i Joy Division, c’è anche la scelta degli altri componenti del gruppo (escluso Tom Frank) di continuare con un altro nome e un’altra identità, dopo lo scioglimento: nel 2000, dalle ceneri della band originaria nascono i The Walkmen, che pubblicheranno sette album tra il 2002 e il 2012, e che potranno dire di aver conosciuto un successo che i Jonathan Fire*Eater hanno soltanto sfiorato, ricalcando il percorso dei New Order dopo la fine dei Joy Division.
Stewart Lupton non muore suicida nella sua piena giovinezza come Ian Curtis. La sua “uscita di scena” sarà meno epocale, ma forse per questo ancora più triste: morirà a 43 anni, nel 2018, nel silenzio del suo appartamento, dopo anni di dipendenze e di tremolanti tentativi di creare nuova musica con i “The Childballads“, un altro riferimento letterario, questa volta alle “Child Ballads” raccolte da Francis James Child nella seconda metà del 1800.
L’ennesima fine tragica di un talento consumato dai propri demoni e da un disagio che il successo e la fama non possono calmare, ma solo esasperare. Un finale triste e comune a tanti altri artisti che rimpiangiamo da anni, ma con una differenza: quasi nessuno conosce la storia di Stewart Lupton e della sua band, che con un solo EP hanno aperto la strada a band oggi famosissime. Per scoprirla, infatti, abbiamo letto un libro che porta il titolo di una canzone degli Strokes, non certo dei Jonathan Fire*Eater, che, in maniera beffarda, sono stati divorati proprio da quel fuoco che sembravano pronti a domare.
Nel 2018, nel dare la notizia della morte di Stewart, il Los Angeles Times ha usato parole dure, ma perfette, che riassumono perfettamente l’amarezza di questa storia: “Possibly the most hyped young group that nobody has ever heard of”.
Sara Bernasconi