Kings of Leon: come ci si diverte a quarant’anni?
Come cambia il modo di divertirsi a quarant’anni? E soprattutto, ci si diverte ancora davvero? A questo…
Come cambia il modo di divertirsi a quarant’anni? E soprattutto, ci si diverte ancora davvero?
A questo dilemma hanno tentato di rispondere i Kings of Leon, freschi di un album uscito pochi giorni fa, che segna il loro nono lavoro in studio: “Can We Please Have Fun“, per l’appunto, pubblicato per LoveTap Records e Capital Records, e anticipato dal singolo acchiappAscolti e acchiappaReel “Split Screen“.
Rompiamo subito gli indugi: l’album non è un capolavoro, né qualcosa degno dei loro momenti migliori, ma, come ci è già capitato di dire spesso parlando dei “ritorni” di tante band di inizio 2000, se non addirittura degli anni ’90 (Blur, The Strokes, The Libertines per citarne solo alcune), è oro colato per lo standard del mercato musicale di questo specifico genere.
Sebbene la produzione abbia un’impronta pop (grazie, o per colpa, di Kid Harpoon, già collaboratore di Florence and The Machine e Harry Styles) e dal sound decisamente “mainstream”, il rock c’è, e pervade tutte le canzoni dell’album.
In tutti i pezzi, infatti, a farla da padrone, in acustico o in elettrico, è un oggetto mitologico, con sei corde: si chiama chitarra, e ha il potere di rendere il mondo un posto migliore e la musica una benedizione.
Così, si parte col basso e le note morbide di “Ballerina Radio“, una ballata dolce che ricorda un po’ troppo gli U2, poi “Rainbow Ball” lascia più sfogo allo stile vocale di Caleb Followill, che si muove armonicamente tra parole sospirate, graffiate e urlate, riportandoci dalle parti più familiari dei Kings of Leon. Dopo il mood poco deciso di “Nowhere To Go” (pezzo pulito, ma di poco impatto, come “Actual Daydream” e “Don’t Stop The Bleeding“, qualche canzone dopo), arriva il primo sprint, grazie a “Mustang“: è qui che ritroviamo quella voce calda, ma anche disordinata, con cui, fin dai primi album, i nostri hanno saputo esprimere i colori del Sud degli Stati Uniti, sia quelli dorati dei tramonti sul Tennessee, sia quelli più cupi del disagio familiare e delle contraddizioni sociali in cui possono convivere rigore religioso e pistole (due elementi che coesistono anche nell’infanzia dei fratelli Followill).
La già citata “Split Screen” divide l’album in due: da qui abbandoniamo i pezzi più prudenti, ci facciamo avvolgere dalla melodia bellissima di questa ballata – che ci regala parole come “To see all the color run from your eyes, is this a middle-of-a-life thought? A revelation on a split screen?” – e ci prepariamo a muoverci un po’ di più, nella seconda parte della tracklist,
Appena superata la metà dell’album, infatti, arrivano i pezzi forti: “Nothing To Do”, “M Television” e “Hesitation Gen” sono tre inni all’indie rock, per come lo abbiamo conosciuto (e amato) negli anni 2000: qui risentiamo i Kings of Leon delle hit “Use Somebody“, “Sex on Fire” o “Bucket”. La bellezza delle melodie, la voce al sapore di whisky di Caleb e, di nuovo, quegli oggetti misteriosi: le chitarre. Ovunque.
Non usiamo il verbo “risentire” a caso: perché, come abbiamo detto in apertura, questo lavoro non tocca i picchi degli esordi e dei primi album, ma ce li fa ricordare, riassaporare e, come per ogni ritorno che si rispetti, rimpiangere.
La chiusura morbida del disco, affidata a “Ease Me On” e “Seen“, infatti, torna a farci sedere sulla poltrona dopo i saltelli della triade precedente. E, allora, prendiamo un bicchiere di vino, ci sediamo e poggiamo lo sguardo su di un qualche dettaglio insignificante davanti a noi: la mente vola a quegli anni pazzi e incoscienti, in cui tutto sembrava possibile – per noi, per il mondo, per la musica – e a quella voglia di urlare la nostra presenza arrabbiata, che fosse con delle urla, o con il pogo a un concertino in un basement minuscolo.
Sono passati vent’anni, anche per i Kings of Leon. E’ naturale che la sfrontatezza lasci il posto alla cautela, e che i momenti in cui ci si abbandona e si mollano i freni rappresentino più uno strappo alla regola che altro.
O forse no?
Forse non dovremmo lasciare più spazio a chi siamo stati in quel periodo libero e disincantato?
Possiamo ancora divertirci come vogliamo, o abbiamo bisogno del permesso di qualcosa o qualcuno, che sia la nostra coscienza, la società o qualcuno che, senza saperlo, ci frena?
Non esiste certo una risposta univoca e ognuno troverà la sua dentro di sé, ma forse un’idea ce l’abbiamo.
E ce l’hanno anche i Kings of Leon che, infatti, nel titolo hanno omesso il punto interrogativo.
Sara Bernasconi