Il Corvo tra rock e cinema

Sono molti i film che fanno parte della cultura rock, sia per la storia che mettono in…

Sono molti i film che fanno parte della cultura rock, sia per la storia che mettono in scena sia per la colonna sonora che li accompagna. Fra questi, Il Corvo di Alex Proyas ha segnato l’immaginario di molti goth per ben trent’anni, in parte per la storia macabra che si porta dietro, in parte per la forza della trama e l’atmosfera dark che lo contraddistingue.

Proiettato nelle sale nel maggio del 1994, The Crow prende vita dal supereroe di James O’Barr, fumettista e scrittore americano che nel 1989 trova finalmente una casa editrice disposta a pubblicarlo. Il successo è immediato e il film che ne verrà tratto non è da meno. Anzi, è proprio la pellicola ad aggiudicarsi fin da subito una certa notorietà, sebbene forse un po’ tetra. A causa di una pistola carica per sbaglio, Brandon Lee perde la vita sul set.

Al di là del triste retroscena, quella del Corvo è una storia di amore e morte, in cui eros e thanatos si intrecciano in un modo nuovo e denso di emozioni. Eric Draven perde la compagna Shelly Webster, insieme alla sua stessa vita, la notte prima delle nozze; a commettere l’atroce crimine è un gruppo di sbandati, che il 30 ottobre di ogni anno, in quella ormai nota come “La notte del diavolo”, gira per la città appiccando incendi per tingere di rosso e caos il cielo. Ma il delitto è stato troppo violento e doloroso per restare nell’oblio; così un corvo, simbolo del male, della morte, del soprannaturale e dei desideri avverati, richiama Eric dall’aldilà legandosi alla sua anima, per vendicarsi di chi gli ha inflitto tutta quella sofferenza. Inizia così la vendetta di Draven, che trova nel corvo i suoi occhi e il suo guardiano: è lui a indicargli la strada, a precederlo, a offrirgli l’immortalità. 

Ciò che rende The Crow un film molto sentito nella comunità goth e rock è poi il legame con la musica: Eric è un chitarrista rock e durante il film si esibisce in un assolo sui tetti della città, davanti a un cielo rosso vivo. Altrettanto apprezzate sono le atmosfere cupe, ora più tristi ora più aggressive, grazie a una colonna sonora ad altissimo impatto. 

Iniziamo con uno dei momenti cruciali del film, quando Eric, appena emerso dalla sua tomba, torna nella sua casa e rivive gli ultimi attimi della sua vita. Dopo la disperazione generata dai ricordi, prende forma il desiderio di vendetta e inizia la sua trasformazione: davanti allo specchio, assistiamo al trucco con cerone bianco e rossetto – rigorosamente nero – sulle note di Burn dei The Cure

Il brano è stato scritto per il film, e infatti il testo è particolarmente calzante: 

Just paint your face, the shadows smile

Slipping me away from you

Oh it doesn’t matter how you hide

Find you if we’re wanting to

Questi versi arrivano dopo due strofe di afflizione, in cui si passa prima per la negazione (“Don’t look, don’t look, the shadows breathe”) e poi per il risentimento (“Don’t talk of worlds that never were / The end is all that’s ever true”). Le tre strofe sembrano così illustrare il percorso del lutto, che parte dal rifiuto per evolversi nella rabbia e risolversi, infine, nello spirito di vendetta. Degno di nota l’utilizzo del plurale “we” nell’ultima strofa, a suggerire che Eric e il corvo sono ormai inseparabili, un’unica entità.

Ugualmente intrigante è il modo in cui la canzone utilizza l’immagine del corvo con tutti i suoi significati simbolici. Nella storia dell’Occidente, il corvo è stato associato a quello che Carl Gustav Jung definiva l’ombra dell’animo umano, ovvero i tratti della psiche che non si vogliono conoscere e che, pertanto, si tende a nascondere. Il corvo nel film è un tramite non solo fra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma anche tra il passato e il presente di Eric Draven: gli fa rivivere i ricordi che aveva rimosso per portarlo all’azione e a esorcizzare il suo dolore. Allo stesso modo, in Burn sono presenti queste ombre vive e vibranti, che prima fanno notare la loro presenza respirando e sussurrando, poi pian piano accolgono Eric sorridendo, finché il nostro protagonista non arriva a “sognare il sogno nero del corvo” (“Dream the crow black dream”).

Ci spostiamo poi sui tetti della città, dove vediamo il corvo avanzare con le sue ali ed Eric seguirlo con salti più simili al volo dell’animale che alla corsa di un uomo. Come sottofondo sentiamo Dead Souls, scritta dai Joy Division e registrata dai Nine Inch Nails. Scelta abbastanza interessante, visto che James O’Barr è stato affiliato alla band metal Trust Obey, che aveva siglato un contratto con l’etichetta di Trent Reznor.

Dead Souls ha un ritmo ripetitivo e un riff seducente, un po’ incalzante e un po’ contenuto, che esplode nel ritornello. È dunque la colonna sonora perfetta per la scena in cui Eric Draven si reca dalla sua prima vittima. Nel testo il refrain è un solo verso ripetuto, “They keep calling me”. Ha senso pensare che il “they” si riferisca alle anime morte citate nel titolo. Seguendo la storia di The Crow, chissà che queste anime non siano proprio quelle di chi ha violentato e assassinato Shelly. Anime che continuano a chiamare Eric affinché possa placare la sua sete di vendetta, come se stessero ripetendo il suo nome dall’aldilà cui sono destinate. Dopotutto, come dice lo stesso Draven nel film, “sono tutti morti, solo che ancora non lo sanno”.

Nell’album The Crow: Original Motion Picture Soundtrack ascoltiamo anche Darkness dei Rage Against The Machine, The Badge dei Poison Ideas nella versione dei Pantera, e Only Dying degli Stone Temple Pilots, con il nuovo titolo di Big Empty in onore di Brandon Lee. Nel film la musica rock è in primo piano, alternandosi alle composizioni orchestrali di Graeme Revell, riservate ai momenti più tristi e intimi, oltre che alla memorabile lotta finale. 

Con una trama avvincente e romantica, un immaginario dark e una colonna sonora rock, il film di Alex Proyas ha introdotto al grande schermo un supereroe diverso dal solito, che non ha la pretesa di salvare il mondo, ma che combatte per se stesso e per chi ama, mosso da un sentimento che supera perfino la morte. Lo fa con una giacca di pelle lunga fino alle caviglie, un paio di anfibi e una chitarra elettrica in mano, diventando un’icona per molti rockettari che in lui hanno visto, forse, non tanto un vendicatore spietato, quanto il simbolo del connubio di aggressività e morte, amore e odio, dolcezza e rabbia. Dietro la figura nera e il trucco da fantasma si nasconde un’anima sofferente e coraggiosa, pronta a lottare per difendere il suo sentire e aiutare chi gli sta a cuore a trovare la luce in un’esistenza grigia. Come recita il verso di una sua canzone, d’altronde, “non può piovere per sempre”.

Bibliografia: 

Stefania Martini

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Alberto Pani

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Cresciuto ai piedi delle ridenti colline del Monferrato, tra muri di nebbia sei mesi l’ anno, zanzare incazzate nei sei mesi successivi e bocce di vino rosso sempre e comunque per stemperare il disagio così accumulato.

Chitarrista fuori forma.

Fermamente convinto che 8 volte su 10 le cose si risolvano da sole.

Punto debole: la meteoropatia